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IL RACCONTO / IL TEMPO NON CANCELLA IL PASSATO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

19
OTT
2017
In ufficio, quel venerdì l’argomento dominante era la festa della mamma che sarebbe caduta proprio la domenica successiva. «Io inviterò mia madre. L’anno scorso sono stata io da lei». Diceva Sonia, la più anziana delle mie colleghe.
«Io avrò a pranzo i miei, ma che barba, anche i suoceri. Ma che ci posso fare, è la festa della mamma, mi tocca». Replicò Anna.
«Io non ho ancora parlato con nessuno, ma sono sicura che verranno tutti da me, sia mia madre sia mia suocera e come s’incontreranno cominceranno a litiga- re». Disse l’altra mia collega Francesca, e una risata generale accolse le sue pa- role sconsolate. Poi qualcuna si accorse di me, che me ne stavo in disparte senza partecipare alla conversazione e allora Sonia chiese:
«E tu cosa fai domenica, Elena?»
Io mi strinsi nelle spalle e risposi: «Assolutamente nulla. Come sapete non ho  gli. Quanto a mia madre non ho più rapporti con lei da anni. E non credo che quest’anno cambierà qualcosa». Restarono tutte quante raggelate dalla mia fredda risposta, a parte Franca, che intervenne «Che peccato! Mi dispiace. Sarà che io ho un bel cosí rapporto con la mia… Non puoi cercare di fare pace? Magari se ci provassi, se facessi il primo passo…» Io mi limitai ad alzare la testa e a lanciarle un’occhiataccia.
«Scusami», continuò subito lei. – «Era solo un consiglio».
Quando uscii dall’ufficio, avevo la testa in fiamme. Ero stanca delle loro chiacchiere che mi avevano messo di cattivo umore. La festa della mamma, per conto mio, l’avrei cancellata dalle ricorrenze. Io con mia madre non parlavo più da tanto tempo, e avrei voluto cancellarla anche dai miei pensieri.
Ritornai a casa sperando che un po’ di musica e una buona dormita servissero a calmarmi, invece niente. Mi sentivo inquieta, ripensavo alla giornata trascorsa, ai progetti domenicali delle mie colleghe, alla loro vita familiare tranquilla, contornata dai soliti alti e bassi eppure serena, circondate da persone a cui vogliono bene e al rapporto con le loro madri che è rimasto intatto e sempre molto intenso. Pensando a tutto questo, un pizzico d’invidia mi attraversò la mente e allora cercai di pensare ad altro, ma senza riuscirci. Mangiai senza quasi appetito e poi andai a coricarmi, ma sapevo che non sarei riuscita a dormire. Mi giravo e rigiravo nel letto, sperando invano che il sonno arrivasse e portasse via tutti quei pensieri dolorosi che mi stavano turbando. Mi scorrevano davanti agli occhi le immagini della giornata, risentivo i dialoghi delle mie colleghe che parlavano delle loro famiglie e di come si sarebbero organizzate per la festa della mamma. E in ne la frase di Franca, accompagnata dal suo sguardo pieno di compassione: ”Che peccato... non puoi cercare di fare pace?”
No. Non ci pensavo nemmeno. Desideravo solamente stare da sola e non ave- re più nulla a che fare con mia madre. Quando riuscii a prendere sonno, era già quasi l’alba. Mi svegliai sul tardi, con la sensazione di essere scossa dalla mano di qualcuno e sentendo una voce che mi diceva:
«Su, su, svegliati: è ora d’alzarsi. Non ricordi quante cose hai da fare oggi?»
Nel dormiveglia non capivo chi fosse, né dove mi trovassi.
«Ma cosa stai dicendo mamma. Oggi è sabato». E le mie stesse parole mi destarono del tutto, ma cosa stavo dicendo? “Mamma”? Probabilmente stavo ancora sognando e immaginavo che mia madre mi stesse scuotendo per svegliarmi.
Mi alzai a sedere sul letto: naturalmente non c’era nessuno accanto a me e compresi che la mia reazione era stata sollecitata soltanto dalle riflessioni della sera prima. Era vero, comunque, che dovevo sbrigarmi per fare tutte quelle cose casalinghe di ogni sabato. Mi andai a fare la doccia cercando di farmi scivolare via tutte quelle sensazioni negative che mi stavano tormentando dal giorno prima e poi cominciai a darmi da fare.
Al supermarket mi capitò di ascoltare la conversazione di due giovani signo- re, anch’esse in fila alla cassa: “Domani vado a pranzo dai miei”, diceva una all’amica. “Beata te. Io invece ho tutti a casa mia: mamma, papà, suoceri e anche mia sorella con suo marito e i  gli. Preparo una torta di mele che piace tanto a mia madre, e spero solo che questa volta mi riesca bene”. “Oh, allora non t’invidio proprio. Comunque ci sentiamo... così mi racconti com’è andata”. Concluse l’altra.
Mio malgrado, sentendole, mi trovai a invidiarle. Con le loro mamme andavano sicuramente d’accordo e avevano le loro belle famiglie. Già la famiglia. Anch’io ero stata sul punto di farmene una con Massimo, ma poi tutto si era dissolto pro- prio per colpa di mia madre.
Finalmente arrivò il mio turno. In lai tutto nelle buste, pagai e poi uscii a te- sta bassa. Pochi passi per raggiungere la macchina parcheggiata non molto lonta- no, e fu allora che la vidi salire sulla sua automobile.
Non era possibile, non poteva essere lei, mia madre. Abitavamo distanti, lei in pae- se ed io in città, e da anni non guidava più. Uscita dal parcheggio mi passò davanti e sorrise. Alzò una mano in segno di salu- to. Rimasi sbigottita e mi girai per vedere dove stesse andando, ma si era fermata poco più avanti e allora la raggiunsi. «Ciao Elena». Mi disse.
«Mamma...» Riuscii a balbettare.
«Mi raccomando abbi cura di te. Me lo prometti questo, vero?» Era la sua frase abituale. Lo ricordavo bene. Ma che sen- so aveva pronunciarla ora, in quel par- cheggio, dopo anni che non ci vedevamo e non ci parlavamo più? Balbettai un “sì”, quasi automatico, d’istinto, e continuai a guardarla interdetta.
«Allora vado tranquilla... e vienimi a tro- vare qualche volta». Continuò lei, con un sorriso stanco e accarezzandomi la mano che avevo appoggiato sulla portiera della macchina. Io annuii un’altra volta senza sapere cosa risponderle e lei ripartì, e un attimo dopo era sparita.
Salii in macchina con le tempie che mi scoppiavano. Era successo tutto così all’improvviso che quasi mi sembrava di averlo solo immaginato. Mi erano ve- nuti tanti dubbi, ma più ci pensavo e più mi dovevo convincere che l’avevo vista davvero. Aveva il volto stanco, la pelle tirata e sembrava triste. Ma perché si era comportata così, con tanta naturalezza, dopo anni di silenzio. Anche se la nostra frattura risaliva ad anni prima, non poteva certo essersene dimenticata. Troppi interrogativi mi frullavano per la mente e non riuscivo a darmi una spiegazione. Trascorsi il resto della giornata a casa, cucinando, guardando un po’ di televisione e in ne me ne andai a dormire con un libro. Leggere qualche pagina prima di addormentarmi mi è sempre piaciuto, ma quella sera non riuscivo a concentrarmi, non facevo che pensare a mia madre, al suo viso aggrinzito, alla sua espressione tranquilla ma non serena. E inevitabilmente tornai indietro nel tempo, a quei giorni lontani, quando tutto sembrava mi dovesse sorridere e trovavo il mondo meraviglioso. Una fiaba tutta da vivere con Massimo.
Massimo, se chiudevo gli occhi me lo rivedevo davanti. I capelli neri, gli occhi scuri, la sua voce inconfondibile, il suo sorriso gioviale che raramente abbandonava il suo viso. Massimo, che sapeva cullarmi, trasmettermi amore, serenità, gioia e sicurezza. Massimo, l’uomo che amavo, colui che avevo cercato da sempre e che avevo scelto tra mille altri. Con lui fu subito vero amore.
Ed anche il ricordo del nostro primo in- contro, del nostro primo appuntamento, è sempre nitido nella mia mente, come i baci dati al chiaro di luna sulla spiaggia, il nostro modo di stare uno una nelle braccia dell’altro, l’essere felici insieme.
Era stata la mia amica Simona, la prima ad avere dei dubbi sulla nostra unione, qualcosa che non avrei mai immaginato. «Scusa Elena, ma tu ti metti con uno che fa il giardiniere e il padre è un contadino?»
«E allora? Che c’è che non va?» Avevo ribattuto stizzita.
«Oh, niente, ma prova a dirlo a tua madre, se sei capace! Vedrai come la prende». Già, mia madre. Be’, sapevo che per me aveva altri progetti, magari farmi sposare Aurelio, il figlio del socio in affari di mio padre, laureato e ingegnere, con una famiglia ricca alle spalle e una sicura carriera davanti. Ma io, e lo sapeva, non ne volevo sapere di lui. Conoscevo Aurelio, lo avevo anche frequentato per qualche tempo, ma non è mai scattato niente, non c’era mai stata sintonia tra noi. Ma mamma sperava che io cambiassi idea, e mi resi conto di come stessero veramente le cose quando qualcuno riferì ai miei genitori che frequentavo assiduamente Massimo. Mio padre si limitò a dire che avrei dovuto ripensarci, che la nostra famiglia era troppo distante e diversa dalla sua. Ma mia madre, invece, s’inviperì. Perse letteralmente le staffe e disse che mi avrebbe impedito con ogni mezzo di rovinarmi con le mie stesse mani, di far entrare in casa un misero e squattrinato giardiniere che pensava solo di accaparrarsi parte dei nostri soldi. Io le risposi che ci volevamo bene, che lo ritenevo l’uomo della mia vita, ma, come prevedevo, si rifiutò di ascoltarmi.
Nella mia ingenuità, d’allora, pensavo di poter stare comunque tranquilla. Conoscevo mia madre, si arrabbiava spesso, avrebbe continuato con le sue prediche e minacce, ma niente di più. Così continuai a frequentare Massimo, tanto alle sue sfuriate ero abituata. Ogni tanto mi lanciava qualche occhiataccia, qualche minaccia, ma poi non succedeva niente. Ma alla  ne, quando si rese conto che malgrado i suoi sforzi io continuavo a frequentare Massimo, decise di intervenire pesantemente.
Prima tentò più volte di convincere me a lasciarlo, poi Massimo a lasciarmi. Sguinzagliò uno dei tanti collaboratori di papà per offrirgli una cospicua somma di denaro affinché scomparisse dal paese e dalla mia vita e, alla  ne, nemmeno tanto velatamente, lo fece minacciare che se non si allontanava da me gli avrebbe fatto passare un brutto guaio.
Quando lo venni a sapere, mi arrabbiai, le dissi che non si doveva più permettere di tormentarlo, di intromettersi nei miei affetti e affari personali. Le dissi che lo amavo e che sarebbe stato l’unico uomo della mia vita.
Ma ero inquieta, perché sapevo che mia madre non si sarebbe arresa tanto facilmente. In ogni modo, da quel giorno iniziò la nostra personale guerra fredda e quando, dopo qualche tempo, le comunicai che Massimo ed io avevamo deciso di andare a vivere assieme, lei perse letteralmente la testa e cominciarono i guai seri. Massimo faceva il giardiniere a giornata e aiutava il padre che aveva un pezzo di terra. Coltivavano degli ortaggi che poi portavano al mercato, ma un giorno mi disse che aveva trovato lavoro in città. «Se vogliamo andare a vivere per conto nostro ci servono soldi. Non posso chiedere niente ai miei, e non voglio nemmeno prendere quelli che vorresti passarmi tu. In città andrò a fare l’operaio e intanto troverò casa, la metteremo su assieme e poi ci potremmo anche sposare».
Questi erano i nostri progetti, ma comunque non ci fu tempo per realizzarli. Una sera, di ritorno dal lavoro, Massimo ebbe un incidente con la sua moto e perse la vita.
Per colpa di mia madre, che lo aveva costretto a precipitare le cose, ad allontanarsi dal paese per andare a cercare lavoro altrove, ora il mio Massimo non c’era più. Per giorni interi mi chiusi nella mia stanza. Non volli parlare con nessuno e non vidi mia madre per molto tempo, né lei ebbe il coraggio di venire a bussare alla mia porta. Solo mio padre veniva la sera a stare un po’ con me. Cercava di portarmi un po’ di conforto, di parlarmi, di farmi mangiare qualcosa.
Quando decisi di uscire da quella stanza, comunicai ai miei genitori che mi sarei trasferita in città, che avrei dato gli ultimi esami all’università e che sarei andata a vivere per conto mio.
Dissi tutto questo guardando mia madre con odio, sembrava molto provata ma non fece un solo gesto per fermarmi. Papà fu più tenero, prima cercò di dissuadermi, poi disse che per lui andava bene e che mi avrebbe anche aiutato a trovare casa e l’avrebbe arredata.
Andai a vivere in città. Ripresi a studiare e quando mi laureai, grazie alle conoscenze di mio padre, trovai lavoro in una grande azienda d’informatica e anche se non avevo mai lavorato un giorno in vita mia, mi accorsi che qualcosa lo sapevo fare. Non guadagnavo molto, ma con lo stipendio e l’aiuto di mio padre, me la cavavo bene. Ero contenta, ma il dolore non passava. Pensavo sempre a Massimo, a come saremmo potuti essere felici, ora che lavoravo anch’io.
La mia collega Franca, a cui con davo le mie pene, un giorno mi disse che dopo tanto tempo avrei dovuto perdonare mia madre, chiamarla e andarla a trovare. In fondo, concluse, era sempre mia madre e aveva agito, in cuor suo, solo a  n di bene. E non era stata lei a uccidere Massimo. Ma io, ogni volta che pensavo a lei, provavo nei suoi confronti un rancore chiuso, sordo.
Quella mattina poi, l’avevo anche vista e la cosa mi face stare ancora peggio.
La notte non riuscii a chiudere occhio, la mattina ero stravolta e quando squillo il cellulare, risposi senza neppure guardare da chi provenisse la chiamata.
Era mio padre, e m’informava che nella notte la mamma era morta.
Quante volte pensando a lei, dicevo che per me “ormai era come morta...” Ma adesso che era successo davvero, provai un dolore immenso, terribile, e questo perché, in un attimo, mi resi conto di quanto l’avessi trascurata e quanto male le avessi fatto, non volendo più parlare con lei.
Pensai a come l’avevo vista il giorno prima, al suo viso tirato e serio, allo sguardo pietoso, e poi ricordai le sue parole: “Ciao Elena. Mi raccomando, abbi cura di te...” Quando arrivai alla villa papà mi venne incontro sulle scale e mi abbracciò. Gli chiesi come fosse potuto succedere? Gli dissi che l’avevo vista in città il giorno prima, che c’eravamo anche salutate. Lui sembrò non stupirsi e mi accompagnò in casa.
In seguito, quando ci trovammo da soli, mi parlò allungo della mamma.
«Tua madre era oppressa dal rimorso per quello che era successo a Massimo. Ha passato questi ultimi anni chiusa in se stessa, aspettando una tua telefonata, sperando di vederti attraversare la soglia del- la nostra casa. Era esacerbata dal rimorso, affranta dal dolore, e forse per questo si è ammalata. Ripeteva di aver rovinato la tua vita e anche la nostra. Io cercavo di tranquillizzarla, le dicevo di avere pazienza. Cercai anche di riappacificarvi, lo sai. Sapessi quante volte ho cercato di passar- le il cellulare dopo che avevo parlato con te, ma lei temeva la tua brusca reazione e...»
Gli chiesi come mai quel giorno l’avessi vista in città, davanti al supermarket dove il sabato vado a fare la spesa, e lui mi svelò che la mamma spesso, e comunque ogni sabato, prendeva la macchina e veni- va in città perché voleva vedermi. Voleva sentirmi vicina, ma che non ha mai avuto il coraggio di avvicinarsi, sempre per paura della mia reazione.
«Ormai stava così male che forse avrà sentito il bisogno di vederti da vicino per l’ultima volta, di rivolgerti la parola, di salutarti». Concluse mio padre.
Io cercai di farmi forza, ma non ci riuscii, e allora mi lasciai andare a un pianto di- rotto, irrefrenabile, come non mi era più capitato dall’incidente di Massimo.

 



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