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LA MIA POSIZIONE IN SECONDO PIANO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

16
NOV
2017

Purtroppo non sono mai stata bella. Avrei dato chissà cosa per esserlo, ma non è stato così. Sono intelligente, attenta, anche affascinante, ma non sono mai stata bella. Non ho mai avuto i capelli d’oro o gli occhi color zaffiro, e nemmeno gli zigomi alti e il naso perfetto. Guardandomi allo specchio posso al massimo giudicarmi passabile, interessante. Nulla di più. Ma non per questo mi sono lasciata scoraggiare, tanto che anch’io ho avuto le mie avventure amorose. Qualche volta lunghe, qualche volta brevi, a volte solo il tempo di un flirt, ma le ho avute anch’io. Una in particolare, quella con Fausto che è durata, tra tira e molla, prendi e lascia, quasi otto anni.
Era un gran mascalzone ma anche un bell’uomo. Affascinante. Mi sapeva parlare, mi sapeva coinvolgere e poi di notte era fantastico. Mi faceva sentire una regina, appagata, contenta di sentirlo vicino. Peccato che avesse una pecca, però: era sposato.
L’ho conosciuto otto anni fa alla sagra della porchetta. Una di quelle feste che mi piacciono tanto perché sono genuine, nostrane, senza fronzoli, che quando ero piccola si tenevano anche nello spiazzo davanti a casa mia, con tanta gente, assaggini, spuntini, tanto vino rosso e poi musica dal vivo e balli. Quella volta c’ero andata con le mie amiche, qualcuna con il fidanzato, le altre da sole per divertirsi e non pensare che a quasi quarant’anni, come me, eravamo ancora single e senza grandi aspettative all’orizzonte.
Io ballo bene e tra la folla c’era questo tipo che continuava a guardarmi. Era alto, snello e muscoloso. Aveva gli occhi scuri e i capelli lunghi e mi piaceva. Caspita se mi piaceva, appena l’ho visto, al primo sguardo. Gli amici, e anche qualche estraneo, mi invitavano a ballare e io, pur di stare al centro della pista e così farmi notare da lui, accettavo volentieri.
Io indossavo una gonna nera e una maglietta a righe larghe, gialle e nere, e a un certo punto, quando avevo finito di ballare ed ero tornata al mio tavolo, questo tipo si è avvicinato e mi ha detto:
«Mi piacerebbe danzare con quest’ape regina». Io mi sono subito alzata e abbiamo fatto due balli insieme, poi siamo andati al bar, mi ha offerto da bere e abbiamo cominciato a parlare.
Tutto a un tratto si erano fatte le due del mattino, i miei amici se n’erano andati da un pezzo ed io stavo ancora ballando e bevendo con lui. Non so cosa sia successo, forse le stelle si saranno allineate, forse avevo bevuto troppo, forse mi piaceva proprio stare con lui, forse anche complice la notte e la luna piena, fatto sta che alla fine sono andata via con lui e siamo finiti a letto.
È stato bellissimo, peccato che prima di lasciarci abbia scoperto che quel disgraziato era sposato. Me l’ha confessato proprio lui e la mia voce è andata in frantumi. Ma ormai che potevo fare, era troppo tardi.
Sono tornata a casa, pensando di aver fatto un altro sbaglio con la esse maiuscola. Che sarebbe stato meglio non rivederlo più. Non mi piacciono gli uomini sposati, non mi sono mai piaciuti e non sono mai andata, prima, con uno di loro. Ma Fausto non era uno qualunque, aveva sì un sacco di difetti, ma era anche un gran festaiolo, sapeva prendermi, farmi divertire e legarmi sempre più a sé.
Era anche un gran lavoratore, titolare di un’azienda di autotrasporti. Mi aveva raccontato di aver cominciato con un camion sgangherato e poi, poco alla volta, facendo debiti e chiedendo soldi in prestito, ne aveva acquistato un altro e poi un altro ancora. Era instancabile. A quarantacinque anni era titolare di una ditta di autotrasporti internazionali. Si era fatto una posizione e non doveva più un soldo a nessuno, e ci teneva a sottolineare che lui non si adagiava mai sugli allori perché, quando serviva, si metteva personalmente alla guida di uno dei suoi autotreni e viaggiava per mezza Europa.
Forse tutto questo lo faceva per i figli. Ma non so se lo facesse anche per la moglie, dato che il suo era stato un matrimonio riparatore. L’aveva messa incinta quando era ancora minorenne, e tutta la famiglia di lei, numerosa, intransigente e poco accondiscendente, l’aveva messo alle strette, minacciato e fatto su di lui pressione, tanto che alla fine aveva ceduto e l’aveva sposata.
Ora Fausto ha tre figli, e io mi sono sempre chiesta come mai un uomo così alto, forte e muscoloso, fosse stato così fifone, codardo, al punto da non saper dire di no, e averla sposata contro la sua volontà. Ma come diceva William Shakespeare: “La moglie del generale è il generale del generale”, e comanda lei.
Una settimana dopo quella sagra, all’orario di chiusura, Fausto si è fatto trovare davanti al mio negozio. Credevo non mi avesse nemmeno ascoltato quando gli avevo detto dove lavoravo, invece, quando mi ha visto uscire ha dato due colpi di clacson, è sceso dalla macchina e mi è venuto incontro.
«Sei sola?» Mi ha chiesto, stringendomi la mano.
«E con chi dovrei essere?» Gli ho risposto, non sapendo che altro dire e indecisa se mandarlo al diavolo o starlo a sentire.
«Se non hai impegni, vorrei accompagnarti. Ti dovrei parlare». E io come una cretina l’ho seguito e sono salita in macchina.
Mi ha portato in un ristorantino fuori mano, discreto ma elegante. Le portate erano tutte a base di pesce, abbiamo bevuto del vino francese e non so quanto gli sia costata quella cena.
Abbiamo parlato molto, mi ha spiegato molte cose di sua moglie e della sua famiglia. Si è scusato per come si era comportato con me, ha ripetuto più volte che gli piacevo e che avrebbe voluto rivedermi, poi mi ha accompagnato a casa. In macchina temevo il ripetersi di qualche sua avance, anche se facevo finta di niente, ma da vero gentiluomo quella sera non mi ha sfiorato nemmeno con un dito e, arrivati davanti al portone di casa mia, ci siamo salutati con due semplici bacetti sulle guance.
Da quel giorno mi veniva a prendere spesso. Ha cominciato a farmi la corte, poco per volta, con molto garbo ma con insistenza, tanto che nemmeno cacciandolo, riuscivo a convincerlo a lasciarmi stare, a farlo andare via. Che tornasse da sua moglie, dai suoi figli e mi lasciasse in pace. Glielo dicevo, ma lui niente. Alla fine mi sono ritrovata innamorata, e a quel punto non sapevo più fare a meno di lui. Come una cretina, c’ero cascata un’altra volta.
Nei fine settimana non ci vedevamo mai, non mi cercava e non mi telefonava. E questo mi faceva stare male. Io avrei voluto condividere i weekend e il mio tempo libero con lui: passeggiare, fare shopping, pranzare assieme, ma non è mai successo. Ogni volta che gli proponevo di fare qualcosa nei fine settimana, lui tirava fuori mille scuse e glissava l’argomento, cambiava discorso.
Poi pensavo all’altra donna, a sua moglie, e anche se la odiavo, provavo pena per lei. Alla fine gli dicevo che lo capivo e gli davo ragione. Anche se dentro di me sentivo scoppiare il finimondo.
Dopo sei mesi di quell’andazzo non ce la facevo più, e gli ho detto che non volevo più vederlo. Gli ho detto che ero stanca di stare male per causa sua, che mi sentivo trascurata e non alla pari di sua moglie, che lui era sposato e che tornasse da lei.
Per dieci giorni non ci siamo né visti né sentiti, e quello è stato il primo dei tanti tentativi di rottura che ho fatto, ma non sto nemmeno a raccontare cosa sia successo quando ci siamo rivisti dopo quei dieci giorni. Sembravamo due assatanati. Quella sera mi è venuto a prendere al negozio e di corsa mi ha portato nella sua autorimessa, dove teneva i suoi camion. Sopra il garage c’erano gli uffici, ma anche una stanza da letto che da quella sera è diventata la nostra alcova, il nostro rifugio.
Ho persino messo le tende alla finestra di quella stanza e ho comprato anche delle lenzuola e coperte nuove per il letto.
Trascorse un anno così, tra promesse mancate e continui litigi, tra prenderci e lasciarci. Alla fine gli ho dato l’ultimatum: o lasciava sua moglie o me. Lui se l’è presa a morte e mi ha detto che ero una rompiscatole, un’egoista, che non capivo la sua situazione, che lui aveva i figli ancora piccoli e che in fondo avrei dovuto avere solo un po’ di pazienza.
Tanto sbraitare, tanto aspettare, tutto è stato inutile, quanto lui un inetto. Per giunta in quel periodo sua moglie è rimasta anche incinta. È rimasta incinta proprio quando lui mi diceva che stava per abbandonarla, che la stava per lasciare.
Era troppo. A quel punto ho perso la pazienza: io dovevo stare attenta, accorta, prendere le precauzioni, mentre lui… Io non potevo avere un figlio da lui, mentre quell’altra era rimasta incinta. Abbiamo litigato, l’ho mandato al diavolo e non mi sono fatta più vedere.
Mi facevo negare anche al telefono e non ci siamo visti per due mesi. Mi cercava, mi tempestava di messaggi, prometteva mari e monti, ma intanto non aveva il coraggio di lasciare la moglie.
Più passava il tempo, più mi dicevo che avevo fatto bene a lasciarlo. Insomma, lasciarlo, l’ho lasciato per un po’, e alla fine sono tornata io da lui. Mi mancava troppo, e non riuscivo a stare senza di lui.
«Cosa ci posso fare?» Mi domandava con aria innocente, quando tornavo sul discorso del figlio in arrivo.
«Convincila ad abortire, lasciala». Gli gridavo, sempre più indignata e fuori di me dalla rabbia. Altro litigio, e alla fine gli ho dato una settimana di tempo per decidere: o lei o me.
Il giorno stabilito ha suonato alla mia porta e io, sempre più cretina, sono andata ad aprire. L’ho salutato con un sorriso, gli ho dato un bacio, l’ho fatto entrare, ma ovviamente non era cambiato niente, e la sua risposta si è rivelata l’ennesimo tentativo per convincermi a non lasciarlo.
Lui parlava, parlava, mi spiegava, mi diceva delle difficoltà cui sarebbe andato incontro. Parlava e intanto mi teneva le mani, si scusava, mi baciava, ma io mi sentivo morire dentro.
Che razza di vigliacco, pensavo, alla fine non ha avuto il coraggio di lasciare la moglie e ha visto nascere il suo quarto figlio e io, ancora più cretina, ho continuato a frequentarlo, a stare con lui, a tenere in piedi questa storia senza uscita, senza senso. Senza futuro.
E questo è stato il mio sbaglio, perché la nostra storia è continuata così per altri anni. Otto lunghissimi e maledettissimi anni. Anni di fregature, di sofferenza, di speranze sottaciute, di riconciliazioni e di continui abbandoni.
E aspetta che crescano i bambini, e aspetta che si rimetta la moglie, che muoia sua madre, e aspetta che i figli finiscano la scuola. Ho lottato, mi sono piegata alle sue necessità, e tutto questo solo perché mi ero accorta che ero io quella che aveva bisogno di lui, e non viceversa. Lo amavo, ecco tutto.
Quando siamo tornati insieme dopo l’ultimo litigio, lo amavo ancora, ma ormai ero cambiata. Avevo capito che la nostra storia non sarebbe andata da nessuna parte, che non avrei mai potuto avere un futuro con lui, che lui non avrebbe mai lasciato la madre dei suoi figli, per me.
Però, devo essere sincera, quando stavamo assieme, ero felice. Quando stavamo assieme, mi sentivo un’altra, ero sempre allegra e contenta. Anche se Fausto era un fanatico del calcio e a letto mi sono dovuta sorbire interminabili partite di calcio, chissà di quale campionato, trasmesse in diretta da chissà quale stadio. Stavamo bene assieme e, se non toccavamo certi tasti, andavamo anche d’accordo. Tutto sembrava tornato come prima, ma io non mi facevo più illusioni e mi convincevo sempre di più che se volevo continuare a stare con lui, mi sarei dovuta accontentare del mio ruolo di secondo piano, di amante.
Quanti settimanali parlavano di queste cose, di matrimoni in crisi o falliti, di tradimenti e separazioni. Quanti articoli delle riviste che trovavo in negozio, parlavano “dell’altra”, di quella che aveva rovinato la famiglia, dell’amante. E che mi piacesse o no, quella ero io. Parlavano proprio di me, o almeno di quelle che si trovavano nella mia stessa situazione.
Dopo qualche anno che stavamo assieme, qualche notte ha cominciato a dormire a casa mia. Non mi ha mai detto cosa raccontasse a sua moglie, immagino le dicesse che doveva partire, che doveva stare fuori con il suo camion. Non gli ho mai chiesto niente.
Comunque mia madre aveva capito tutto, e siccome sin da ragazzina mi aveva sempre detto di non mettermi mai con uno sposato, quando andavo a trovarla e si presentava l’occasione, mi diceva che stavo sbagliando, che non avevo capito niente, che stavo facendo un grosso errore. Mi diceva di aprire gli occhi, che avrei dovuto pensare a me stessa, e magari un pochino anche a lei.
«Si mamma. Certo, mamma. Hai ragione». Le rispondevo tranquilla, come se mi avesse detto di prendere l’ombrello, perché fuori stava piovendo.
Non mi pento di niente. Però, siccome le cose continuavano a non cambiare, e andavano avanti sempre nello stesso modo, l’ho lasciato per l’ennesima volta, e questa volta penso sia quella definitiva.
Probabilmente ora Fausto si starà mordendo le mani, perché lo sa che se la situazione non cambia, non potrà più mettere piede in casa mia. Forse, alla fine si deciderà a fare quel passo che non è ancora riuscito a fare, ma io non sarò qui ad aspettarlo. Magari domani conoscerò un altro, probabilmente come ho conosciuto lui: a una festa, a un ballo, a una cena, per strada, che ne so?
Anche se con tutto il dispiacere e la delusione che mi porto dentro, con questi spilli conficcati nel cuore, non sono certo dell’umore giusto per lasciarmi andare ad affrontare un’altra storia, con qualcuno che non sia l’uomo giusto.
Dico davvero, in questo momento sono ben altre le preoccupazioni che mi assillano la mente. Sono quelle cose che mi dicono i medici a proposito della malattia di mia madre: alzheimer, con progressiva perdita di memoria, conseguente bisogno di cure e assistenza continua, sino a quando non arriverà il buio totale.
Qualche giorno fa, su una rivista, ho letto che in un paese dell’estremo Nord, lontano, molto lontano da noi, gli abitanti vivono sei mesi dell’anno al buio. Il sole tramonta, e per sei mesi non lo vedono più.
Questa idea continua a ronzarmi in testa. Alzarsi e cominciare la giornata in una notte che non finisce mai. Non riesco a togliermi dalla testa l’incubo di queste notti infinite, del buio totale.
Io vivrei costantemente nella luce, nel sole, nell’assenza di buio. Come se niente si potesse più fare senza essere visti. Giornate assolate, il sole gigantesco sempre sopra di me, questo vorrei.
Ma per ora anch’io sto attraversando questo buio totale, infinito.
Ma spero che un giorno possa arrivare anche per me un po’ di luce. In fondo non chiedo molto. Chiedo solo di avere anch’io una vita normale, avere una famiglia mia, o almeno ritrovare un po’ di quella serenità che ho perduto andando dietro all’uomo sbagliato.
 



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