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RICORDO DELLA MADRE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

14
DIC
2017

La notizia della morte di mia madre mi colse di sorpresa e mi addolorò profondamente. Stava bene e, nonostante i suoi quasi novant’anni, non mi aspettavo che potesse succedere.
«L’abbiamo trovata seduta in poltrona accanto alla finestra, con la matassina di seta in grembo e l’ago ancora in mano. Ha avuto così poco dalla vita, povera mamma… ma almeno le stiamo preparando un bel funerale».
Mi disse mia sorella al telefono, e poi aggiunse:
«Vieni appena puoi. Ti aspettiamo».
Repressi un sorriso amaro, convinto che mia madre di quel “bel funerale” non sapesse proprio cosa farsene. Di sicuro avrebbe preferito continuare a vivere, magari riposandosi un po’ e senza doversi consumare gli occhi su quei ricami che le consentivano di integrare la sua magra pensione.
Se ne stava sempre chiusa in camera sua, in quell’appartamento al terzo piano. Era una vecchia signora d’altri tempi, silenziosa e operosa. Con le sue mani magre e ossute, faceva nascere dei piccoli capolavori. Ricamava tovaglie, lenzuola, federe, centro tavola, tende, tutto commissionato da negozianti che le facevano pagare un occhio della testa ai clienti, mentre a lei davano cifre irrisorie.
Quattro ore di volo e sono arrivato. Ho salito i gradini consunti e giunto al secondo piano, dove vive mia sorella, ho suonato il campanello.
«Ciao Valerio». Mi ha salutato, quasi ci fossimo visti il giorno prima e non fossero trascorsi tre anni dall’ultima volta che ci siamo visti.
«Ciao Teresa». Le risposi, con lo stesso tono perché sia io sia lei le emozioni siamo sempre stati abituati a tenercele dentro.
«Vieni che ti preparo un caffè». Sorrise, e intanto mi precedette in cucina.
Guardandomi intorno, provai un senso di nostalgia, una stretta al cuore che mi fece pentire di essere tornato così di rado in quella casa che racchiudeva i ricordi di tutta la mia infanzia.
C’è sempre qualcosa di nostalgico, nella casa dove si è nati. Non tutti lo sanno, ma chi si è dovuto allontanare lo sente, lo percepisce.
Sulla vecchia tovaglia a quadri, Teresa dispose due tazzine di porcellana, più la zuccheriera, le stesse di sempre.
«Ma com’è successo?» Le chiesi, lasciandomi cadere sulla sedia.
«Povera mamma». Commentò lei, e scosse la testa.
«Era tanto stanca e ormai non ci stava più nemmeno con la testa. Dimenticava tutto. Ricamava, e quella era la sua vita. Trascorreva le giornate seduta in poltrona, davanti alla finestra. Non scendeva nemmeno più qui, da me, nemmeno per il pranzo o per la cena. Dovevo salire io a portarle quello che le serviva. Quelle rare volte che chiedeva di uscire, per lo più per andare in chiesa, la dovevo accompagnare io. Voleva restare sempre chiusa in casa, e cuciva. Era il suo unico passatempo, e sicuramente si sarà dispiaciuta per non essere riuscita a terminare ultimo lavoro. L’abbiamo trovata seduta in poltrona, con il ricamo ancora stretto tra le mani, mentre gli occhiali le erano scivolati per terra». E aggiunse:
«Abbiamo raccolto con cura tutte le sue cose, gli occhiali e le matassine colorate, e gliele abbiamo sistemate in modo che se le potesse portare in cielo con lei».
La guardai sorpreso e stupito, per quel lirismo che non le era mai appartenuto prima, e vedendo due lacrime che le rimanevano sospese alle ciglia, pensai che forse con gli anni si era addolcita anche lei. Mia sorella non si è mai sposata, forse non ha mai avuto nemmeno un ragazzo, un fidanzato. Ha sempre vissuto da sola in questa casa. Mia madre al terzo piano e lei al secondo, dove siamo nati.
«Vuoi salire per darle un ultimo saluto?» Chiese.
«Sembra che dorma», aggiunse. Come a rassicurami, perché lo sapeva che la morte mi incute timore. Le risposi di sì con un cenno del capo, ma rimasi seduto sulla sedia.
Mia madre rappresenta un tassello importante nella mia vita, un ricordo mai sbiadito. Mi sembra di sentire ancora la sua voce. La rivedo china dietro la macchina per cucire, mentre imbastisce e confeziona camice e pantaloni militari per una ditta che forniva il distretto militare. Io mi accucciavo ai suoi piedi, su quella montagna di stoffa grigioverde che ininterrottamente faceva scivolare a terra. La stavo ad ascoltare per ore. Mi raccontava delle strane storie, fiabe per lo più inventate, ma tutte con il lieto fine. Della sua infanzia non amava parlare, e nemmeno degli anni del matrimonio con mio padre, parlava mai. Aveva perso il padre in guerra, e da quel giorno la sua vita non fu più né comoda né serena, perché subito si dovette rimboccare le manche. E nemmeno il matrimonio con mio padre la rese felice, né tantomeno serena. Mio padre urlava per un nonnulla e a quelle grida lei sapeva opporre solo il suo silenzio. Immancabilmente le serate finivano con mio padre che usciva sbattendo la porta e andava all’osteria, mentre mia madre, sorridendomi, scodellava la solita minestra di verdure nel mio piatto. Il silenzio e la tensione si potevano tagliare con il coltello, ma anche in quei momenti mia madre non mi faceva mai mancare il suo sorriso, le sue carezze, una parola buona, il suo conforto. E anche per mio padre trovava sempre una parola buona, lo scusava sempre.
All’epoca aveva solo me, e dove abitavamo non frequentava nessuno. Era arrivata in quel paese verso la fine della guerra, sfollata, con la madre. Lì conobbe mio padre e si sposarono. Due anni dopo mio padre fu coinvolto in un incidente stradale e da allora rimase invalido. Lavorava saltuariamente: lavori leggeri, stagionali e mal retribuiti. Era sempre nervoso e cominciò a bere, e da quel momento il peso della famiglia ricadde solo su mia madre.
Si alzava presto, mi preparava la colazione e il grembiule nero per la scuola, mi faceva mille raccomandazioni e poi correva a prendere la corriera che l’avrebbe portata in città: andava a fare la domestica da famiglie benestanti. Prima di tornare a casa, passava da due sorelle che le davano da confezionare le divise per il distretto militare. Riempiva la sua valigia con le stoffe grigioverde, tagliate e modellate complete di colletti e polsini ma tutte da imbastire e da cucire, più i bottoni da attaccare. Assicurava una cinghia alla maniglia e si caricava la valigia a tracolla. Tornata a casa, subito si metteva alla macchina per cucire. Quando tornavo da scuola, lei era sempre lì, in cucina, con i suoi capelli bianchi che sfioravano la sua Singer a pedali, e cuciva.
Quel rumore del pedale mosso dal suo piede, la sua mano destra che passava velocemente dalla ruota alla stoffa posta sul piano della macchina, l’ago che ininterrottamente continuava il suo breve ma veloce percorso verticale, il rocchetto di filo verde che lentamente si srotolava, sono ricordi nitidi e indelebili, rimasti per sempre nei miei occhi e nella mia mente.
Continuava a cucire divise sino a notte fonda e per paura che mi potessi svegliare nel cuore della notte, non mi portava più a letto. Stendeva una coperta sulla panca di legno in cucina, mi metteva un cuscino sotto la testa, avvicinava due sedie, mi copriva e riprendeva a lavorare. E con il lavoro ricominciava anche quella monotona ninna nanna che produceva il pedale, mosso dal suo piede.
La mattina presto ricominciava: si alzava che era ancora buio, mi preparava la colazione, le scarpe pulite, il grembiule nero per la scuola. Tornava a farmi mille raccomandazioni e subito, con la sua valigia a tracolla, correva alla corriera.
I suoi capelli erano diventati ormai tutti bianchi, ma aveva rinunciato a tingerli. Voleva risparmiare e mettere da parte i soldi per potermi comprare il vestito della prima comunione. Ma anche quell’evento fu motivo d’irritazione per mio padre, e successe quando mi vide le scarpe bianche ai piedi.
«Perché butti i soldi dalla finestra in questo modo? Perché non gli hai comprato un paio di scarpe nere? Dove le mette dopo la festa, queste scarpe bianche?»
Mia madre cercò di spiegargli che voleva abbinarle ai guanti, anch’essi bianchi e che le scarpe le avrebbe in seguito tinte di nero, ma non ci fu niente da fare, quella giornata fu rovinata per colpa di un paio di scarpe bianche, ed io la prima comunione la ricordo ancora con tristezza.
Poi arrivò anche Teresa. Quattro anni dopo di me, ma le cose non cambiarono. Mio padre continuava a non lavorare e mia madre dovette inventarsi altri mille mestieri per tirare avanti. Fece dei sacrifici e acquistò un apparecchietto elettrico che all’estremità aveva un ago uncinato che serviva per ricucire le smagliature delle calze di nailon. Le signore gliele portavano smagliate, mia madre sospendeva il lavoro con la Singer, tirava fuori l’apparecchietto, ricuciva le smagliature delle calze e le riconsegnava. Un grazie e qualche monetina, era tutto quello che riusciva a racimolare.
«Le abbiamo messo il vestito che lei preferiva, quello scuro, quello che indossava la domenica per andare a messa».
Proseguì mia sorella, porgendomi la tazzina ma inconsapevole del divagare dei miei pensieri, del susseguirsi dei miei ricordi. Bevevo il caffè e mi stavo chiedendo se in gioventù mia madre avesse mai avuto un vestito della festa, quello per andare a passeggio, ma mi riuscì difficile immaginarlo. Io la ricordavo sempre così: piccola e magra, con i capelli grigi e poi sempre più bianchi, con il suo abito scuro e il lungo grembiule rosa che le scendeva fino alle ginocchia.
Quando le due sorelle le comunicarono di aver perso l’appalto con il distretto militare e che non avevano più nessun lavoro da offrirle, mia madre ci rimase male ma non si perse d’animo, passò al ricamo. E cosi, in casa, fece la sua comparsa la scatola di latta, quella verde, piena di matassine colorate.
Non correva più alla corriera con la valigia a tracolla, adesso le bastava una capiente borsa, dove ci infilava corredi, lenzuola, federe e tovaglie che i negozi le avevano commissionato. Tornata a casa, con la carta copiativa disegnava sulla stoffa bianca riccioli, fiori, immagini sacre e poi, avvicinata la poltroncina alla finestra, inforcava i suoi occhiali da miope e restava lì seduta a ricamare, per ore e ore. Ci ha perso la vista su quelle stoffe di seta e di lino.
Mi sembra di sentire ancora il ticchettio del ditale che batteva sul tavolinetto. Batteva ogni volta che mi coglieva a guardare “le mosche che volano”, come diceva lei, e mi richiamava all’attenzione. Mi diceva che dovevo studiare, che dovevo diventare grande e colto, e questo me lo ripeteva sempre, anche quando ero arrivato quasi alla laurea e le rispondevo che qualcosa la sapevo già. “Propriamente si crede di sapere quando si sa poco, col sapere cresce anche il dubbio e la voglia di saperne di più”, mi ripeteva. Anche se la frase in questione non era propriamente sua, ma presa in prestito da Goethe.
Seguii mia sorella su per le scale, sino all’appartamento di mia madre. Nella stanza si era riunita una piccola folla di donne: conoscenti, coinquiline. Parenti no, perché eravamo rimasti solo io e mia sorella. Mia madre era anziana e ormai le erano morti tutti intorno, e non le era rimasto più nessuno con cui condividere le sue giornate.
Una donna piangeva, un pianto scalcagnato che ricordava tanto il raglio di un’asina in amore. Passai tra quelle donne che mi fissavano e mi avvicinai a mia madre. Finalmente la vidi serena. Aveva il viso rilassato, le labbra stese in una sorta di sorriso. Forse era morta così, pensando a qualcosa che le faceva piacere.
Il giorno dopo, nella piccola chiesetta di quartiere, si tennero i funerali e tra quelle signore anziane spiccò un volto di donna giovanile: occhi azzurri, più o meno della mia età, elegante nel suo cappotto color sabbia. Sollevò una mano per salutarmi e sul suo polso sottile spiccarono due bracciali d’oro.
Quando i nostri sguardi s’incrociarono, rimasi stupito dai suoi occhi azzurri, che all’improvviso riconobbi. Era Luisa, dalle bionde trecce, dagli occhi chiari e il sorriso accattivante.
Si avvicinò ed io riandai agli anni della nostra adolescenza.
«Condoglianze Valerio». Mi disse, piegando la testa nel suo gesto abituale.
«Grazie Luisa», sussurrai, sfiorandole le guance.
Lei sembrò intuire il mio disagio e un improvviso rossore le imporporò il viso. Voltò le spalle e se ne andò, quasi volesse sfuggire ricordi ormai lontani.
Una settimana dopo, stavo rincasando e mia sorella mi aprì la porta ancor prima che avessi suonato il campanello.
“Deve avermi visto arrivare dalla finestra”, pensai.
Entrando trovai la stanza da pranzo illuminata, la tovaglia delle grandi occasioni, la tavola imbandita e il servizio di piatti che non credo fosse mai stato adoperato prima.
«Cosa succede? Hai per caso invitato le conoscenti di mamma?» Le chiesi.
«No, ho invitato Luisa, siamo amiche e spesso mi chiede di te. Prima che tu parta, ho pensato di invitarla, e a lei la cosa ha fatto piacere». Mi rispose, mentre controllava che tutto fosse al posto giusto.
La ritenni un’imboscata e stavo quasi per reagire male.
«Che cosa ti salta in mente?» Esclamai contrariato.
«Ho pensato che avrebbe fatto piacere anche a te rivederla, trascorrere la serata con una vecchia amica di famiglia. Luisa è sola come te e ti è sempre piaciuta… o sbaglio?»
«Che cosa ti passa per la testa, Teresa? Eravamo ragazzi. È trascorsa una vita da allora, mi sono sposato e ho anche divorziato. Luisa ed io ci siamo persi per strada un secolo fa».
«Ci si può sempre ritrovare». Mi interruppe lei, mentre con gli occhi stava frugando il mio atteggiamento. Quando sentii il suono del campanello e vidi mia sorella andare ad aprire, cercai di ricompormi, di rilassarmi.
Sentii Teresa che faceva entrare Luisa. Le vidi abbracciarsi e poi venire verso di me. L’invitò ad accomodarsi e poi mia sorella sparì in cucina.
I nostri sguardi s’incontrarono, ci sorridemmo e subito sentii la tensione svanire. Luisa era sempre la stessa, bellissima, gli anni non erano riusciti ad intaccare la freschezza del suo viso.
Anche lei si era laureata, si era sposata e aveva divorziato, ma con le sue capacità era riuscita a costruirsi una vita migliore, autonoma. Voleva emergere e c’era riuscita.
Più tardi, alla fine della serata, mentre la accompagnavo a casa, ci ritrovammo a confidarci i nostri pensieri, a rammentarci i ricordi di una vita, e dentro di me si riaccese una fiammella che prese forza e mi dette coraggio. Le presi la mano e lei me la strinse. I nostri sguardi s’incrociarono e in quel momento mi sembrò che il tempo fosse tornato indietro, al periodo della nostra età più bella, agli anni del nostro innamoramento, quando pensavamo di poter percorrere la stessa strada assieme.
Dopo tanti anni, eccoci qui, ancora noi. Noi due ormai adulti, ma ancora con tanta voglia di ritrovarci, riprovarci e ricominciare. Dopo che le nostre strade si erano divise per rincorrere matrimoni sbagliati e convivenze da dimenticare, era giunto il momento che forse aspettavamo da sempre. Ora è di nuovo primavera, sentivo il profumo dei fiori appena sbocciati, vedevo il mare calmo e argentato. Le stelle cercavano di resistere, ma l’aurora stava ormai sopraggiungendo e ci colse così, seduti sulla stessa panchina, su quella panchina in cemento che un tempo ci vide giovani e innamorati.



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