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UNA SEPARAZIONE PERFETTA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

9
FEB
2018
La segretaria mi chiese se poteva far entrare la nuova cliente. Qualche giorno prima, dopo un colloquio telefonico, avevo accettato di rappresentarla nella sua causa di separazione ma mi ero riservata di formulare il mandato che mi nominava sua legale dopo quell’incontro. Luciana, così si chiamava la donna, era una quarantenne con lunghi capelli biondi, trucco curato e vestita in modo elegante. Mi alzai e le tesi la mano, lei sorrise e me la strinse. Ci accomodammo e subito esordì dicendo:
«Sono sicura che mio marito, con lei, troverà pane per i suoi denti!»
 
La guardai con sguardo interrogativo e lei proseguì:
«Lui pensa che le donne non possano essere dei validi avvocati. Dice che noi donne siamo troppo sensibili per riuscire a comportarci con la necessaria fermezza, soprattutto quando si tratta di intraprendere cause dall’esito incerto».
«Questo lo vedremo», replicai. Sentendomi salire la rabbia dentro nei confronti di quel tale che nemmeno conoscevo.
Quelle parole, però, mi avevano colpita, perché erano anni che stavo combattendo contro il pregiudizio maschile, legato alla presunta ed eccessiva sensibilità delle donne in ambito legale. Come se il fatto di essere donna, e pertanto più sensibile degli uomini, dovesse necessariamente tradursi nell’incapacità di difendere degnamente i diritti dei propri assistiti.
Io non mi occupo di penale, perciò non ho mai avuto a che fare con assassini, ladri o aggressori, ma anche le separazioni coniugali spesso creano situazioni in cui le persone coinvolte tirano fuori il peggio di se. Ho assistito a coniugi che dopo la fine del loro matrimonio non disdegnavano di ricorrere a bugie, o addirittura alle diffamazioni, pur di ottenere benefici economici non dovuti. E non mi riferisco solo alle donne, tutt’altro: soprattutto quando ci sono di mezzo i figli, gli uomini, pur di screditare la moglie, possono raggiungere vette d’incredibile cattiveria, unite a insospettate forme di bassezza. 
In casi del genere, normalmente non accetto di rappresentare persone grette che mettono se stesse davanti agli interessi e al benessere dei figli, ma quando non ci sono minori da tutelare non è mia abitudine rifiutare l’incarico, uomo o donna che sia. La legge garantisce a tutti il diritto di farsi rappresentare da un avvocato in una causa, e io devo pur lavorare.
La mia potenziale cliente mi raccontò sinteticamente la storia del suo matrimonio con Dario, quello che a breve sarebbe dovuto diventare il suo ex marito. Mi disse che si erano conosciuti otto anni prima, che il loro era stato un colpo di fulmine e che dopo un anno erano già marito e moglie.
«Mio marito è sempre molto impegnato, fa parte dello staff dirigenziale di una grande multinazionale e si occupa prevalentemente del personale. Mi è piaciuto subito: così serio, così deciso, cosi sicuro di sé. Certo, non avrei mai immaginato che tutta quella sicurezza e durezza si sarebbero trasformate in aggressività nei miei confronti. In pratica mi ha cacciato di casa e ora non chiedo altro che di fargliela pagare». Concluse, mentre io prendevo appunti.
«E come mai è arrivato a tanto?» Chiesi.
«Perché l’ho tradito». Mi rispose con assoluto candore.
Rimasi basita e alzai lo sguardo verso di lei per essere sicura di aver capito bene quello che stava dicendo. Quella donna, il giorno prima al telefono, mi aveva detto che voleva contestare al marito la sua richiesta di addebitare a lei la responsabilità della separazione ma ora mi stavo domandando come sarebbe stato possibile ottenere il contrario.
«Mi scusi, Luciana, ma se è stata lei a tradire, non può pretendere…»
«L’ho fatto solo per ripicca». Precisò lei, interrompendomi stizzita.
«Intende dire che suo marito l’ha tradita per primo?» Domandai, cercando di capire meglio la situazione.
«No, ma io pensavo di sì. E se l’ho creduto, è stata tutta colpa sua!»
Non ci stavo capendo niente e mi sfuggì un moto d’impazienza. 
La donna si rese conto che doveva spiegarsi meglio e allora mi disse che da almeno sei mesi il marito non tornava a casa per pranzo, che la sera rientrava sempre più tardi e che aveva preso l’abitudine di andare in ufficio anche il sabato. 
«Non solo, la domenica si rendeva irreperibile. Usciva e trascorreva la giornata con qualche suo collega o restava nel suo studio a meditare chissà su quale problema».
Poi aggiunse che se gli chiedeva cosa stesse succedendo, perché si comportasse in quel modo, del perché stesse tante ore fuori di casa o chiuso nella sua stanza, lui replicava che c’erano problemi in azienda. 
«Ma erano risposte vaghe e poco credibili. Mi ripeteva che c’era la crisi, che era sempre più probabile il dover ricorrere al licenziamento di maestranze e operai, Che era impegnato a valutare il numero degli esuberi e cercare di superare la crisi senza dover intaccare oltremisura l’organico». 
Ascoltandola, mi sembrava di rivivere la storia con il mio ex compagno. Menzogne, scuse meschine, musi lunghi, litigi, fino a che avevo deciso di dire basta e lo avevo lasciato. 
Scossi la testa, scacciai i ricordi personali e invitai Luciana a continuare il suo racconto.
«Due mesi fa mio marito mi aveva telefonato, e per l’ennesima volta mi aveva detto che quella sera sarebbe rincasato tardi e così, dopo il lavoro non sono tornata a casa, ma accettai l’invito di un collega e andai a cena con lui. Dopo quella cena ne seguirono altre, sempre più intime e sempre più intriganti, sino a che mio marito mi sorprese sotto braccio al collega. Ci seguì sino a casa sua, attese in strada e alla fine ne trasse le somme. Ovviamente ha preteso di sapere chi era, cosa ci facevo sotto braccio a un uomo che non era lui e perché fossi stata tanto tempo a casa sua. Ed io, cretina, non riuscii mentirgli. Lo aggredii, e gli dissi che mi sentivo trascurata, che ero certa che lui facesse tardi solo perché aveva un’altra, che ero sicura che mi tradisse. Mentre io lo avevo fatto solo per vendicarmi. A quel punto ha perso la testa, si è arrabbiato, mi ha insultata, mi ha chiamata in mille modi. Io tra le lacrime ho ribattuto che la colpa era solo sua perché, con la scusa del lavoro, mi trascurava e mi lasciava sempre sola. Lui, tra un insulto e un’offesa ha risposto che ero una pazza se pensavo certe cose, che lui restava in azienda sino a tardi per lavoro, che si dovevano licenziare parecchi dipendenti e lui cercava di limitare al minimo gli esuberi. Davvero sono così colpevole?»
Chiese alla fine, dimostrandosi però poca convinta.
«Mi spiace Luciana, ma penso che la richiesta di suo marito di addebitare a lei la responsabilità della separazione, sarà largamente accolta dal giudice. Lui non ha fatto niente, non l’ha tradita, non ha un’altra donna. Stava solo lavorando». 
Le risposi, dubbiosa sul da farsi. Ma Luciana continuò a insistere che il marito la trascurava, che si era dimenticato di lei e per questo voleva che la colpa ricadesse solo su di lui. 
Ci pensai un po’ prima di rispondere, perché sapevo che sarebbe stato impossibile ottenere quello che chiedeva la mia cliente e, nella speranza di convincerla a rinunciare alla follia di far ricadere la colpa su suo marito, le dissi:
«Se la pensa così, saremmo costrette ad affrontare un procedimento lungo ed economicamente oneroso e alla fine il risultato sarà senz’altro a nostro sfavore». Ma Luciana restò ferma nei suoi propositi e allora risposi che avremmo tentato di ottenere il massimo possibile. Lei ci pensò un attimo e poi annuì, e così accettai l’incarico.
Conobbi Dario, il marito della mia cliente, alla prima udienza e non mi sembrò affatto la persona che Luciana aveva descritto. Anzi, mi diede l’impressione di avere davanti un uomo solo, fragile. Forse, reso così dalla scoperta del tradimento della moglie, pensai. 
Girandomi per salutare il suo avvocato, colsi l’occasione per guardarlo meglio, ma lui non si girò verso di me, restò silenzioso e immobile accanto al suo legale. Lo vidi rivolgere solo uno sguardo sfuggente alla moglie, in cui mi parve di leggere incredulità e dolore, non rabbia.
L’udienza seguì i binari canonici, almeno fino a quando l’avvocato di Dario espresse la richiesta di attribuire tutta la colpa della separazione alla moglie del suo assistito. Luciana, seduta accanto a me, a quel punto s’inalberò, cominciò a protestare, a inveire e solo allora il marito parve scuotersi dallo stato di torpore in cui versava. Si voltò verso Luciana e a bassa voce le ricordò che lei stessa gli aveva detto cosa fosse successo quella sera con il suo collega. Lei ribatté che lui la trascurava, che credeva la tradisse, che lei lo amava, gli voleva ancora bene. A quel punto intervenne il giudice, zittì entrambi e intimò che fossero solo gli avvocati a intervenire.
Tornata in studio, cominciai a capire anch’io le vere intenzioni della mia cliente. Capii che non le importava nulla della responsabilità ma, semplicemente, cercava in tutti i modi di far tornare sui suoi passi il marito; sperava che riuscissi a fargli ritirare la richiesta di separazione. Mi disse che non voleva separarsi, che era stato tutto un equivoco e che voleva parlare con lui da sola, voleva spiegargli... Alla fine mi chiese di andarci a parlare io per prima col marito. 
Mi stupii, e le risposi che il marito difficilmente avrebbe accettato di incontrarmi, ma lei insistette e qualche giorno dopo presi coraggio e chiamai Dario e gli chiesi se fosse possibile incontrarlo, decidesse lui dove. Lui restò per un momento in silenzio e poi rispose che non vedeva il motivo per incontrarci e aggiunse che se volevo chiedergli di ritirare la richiesta di separazione, potevo rinunciare a incontrarlo, perché non aveva nessuna intenzione di farlo.
Gli risposi che era un suo diritto, non accettare di incontrarmi, ma che comunque non sarebbe stato quello il motivo. E dicendo così, cercai di stuzzicare la sua curiosità. Lui rimase per un istante in silenzio e poi mi disse che, se proprio volevo, potevamo vederci nel pomeriggio nel suo ufficio. Non aggiunse altro e riagganciò senza salutare.
Quando alle tre in punto arrivai, Dario mi accolse freddamente e dopo i saluti di circostanza mi fece sedere e io gli dissi, ovviamente,  che ero andata da lui per conto di Luciana, e a quel punto si irrigidì e cercò di interrompermi.
«Mi ascolti, Dario, sono venuta soltanto per dirle una cosa, non ci metterò molto».
Lui sembrò rilassarsi e mi fece cenno di proseguire.
«Sua moglie ha sbagliato, lo sa bene anche lei, ma vorrebbe farle sapere che lo ha fatto solo perché si sentiva trascurata e perché credeva che lei avesse un’altra donna. Ma è ancora innamorata di lei, mi creda, e per questo vorrebbe continuare a vivere con lei».
Lui rispose che non l’aveva mai tradita, che trascorreva tutto il tempo in azienda, e solo per cercare di salvaguardare più posti di lavoro possibile, che stava cercando di gestire al meglio la crisi e che comunque il comportamento della moglie non poteva essere in alcun modo giustificato.
Sentendo le sue parole e rendendomi conto che aveva tutte le ragioni per chiedere la separazione, non dissi più nulla. Ci mettemmo a parlare d’altro. Mi chiese se ero sposata, se avevo figli, se ero sola e da quanto esercitavo la professione. Gli risposi che non ero sposata, che non avevo figli ma che i bambini mi piacevano. Dopo un po’ mi resi conto che la situazione stava diventando alquanto imbarazzante, e allora mi alzai.
«Mi scusi, ma siamo davvero usciti dal seminato, ho fatto tardi e devo scappare». Gli dissi.
«Tra me e Luciana è finita da tempo, ormai. Non so cosa le abbia raccontato, ma c’è un’altra ragione che mi spinge a chiedere la separazione, ed è che Luciana non vuole avere figli. Una scelta legittima la sua, certo, ma avrebbe dovuto dirmelo prima, perché io ne avrei voluti. Mi sono sentito ingannato e ora sono deluso». Mi disse, alzandosi e accompagnandomi alla porta.
Aggiunse che aveva preso a pretesto il tradimento della moglie per chiedere la separazione e così potersi rifare una famiglia.
«Grazie per il tempo che mi ha voluto dedicare». Gli risposi, cercando di mantenere un atteggiamento professionale. A quel punto Dario mi trattenne sulla porta e mi chiese se ci potevamo rivedere.
«Fuori dall’ambito professionale, intendo tu ed io». Precisò. Passando dal lei al tu.
«Non mi sembra il caso, né opportuno». Risposi seria.
«E che importa se non è opportuno?» Chiese, e insistette perché ci rivedessimo.
«Importa a me. Sono ancora l’avvocato di tua moglie». Replicai. Passando anch’io dal lei al tu, senza quasi accorgermene.
Il giorno dell’udienza ero in ansia come non mi era più capitato da quando ero una giovane praticante. Ma il procedimento giudiziario non c’entrava niente, e lo sapevo.
Quando Luciana ed io arrivammo in tribunale, il marito e il suo avvocato erano già lì, davanti alla porta dell’aula. Ci salutammo e questa volta Dario salutò anche la moglie. Poi rivolse lo sguardo su di me e io percepii il suo turbamento, che in definitiva era identico al mio. 
Quando l’udienza iniziò, dopo i soliti convenevoli di rito, l’avvocato di Dario chiese la parola e disse che il suo cliente non aveva più intenzione di addebitare alla moglie la responsabilità della fine del loro matrimonio e che si sarebbe assunto tutte le responsabilità economiche, inoltre, se la moglie fosse stata d’accordo, per quello che lo riguardava, la separazione poteva essere ritenuta consensuale.
A quel punto il giudice chiese se la mia cliente accettava la proposta e lei, capendo che era il massimo che avrebbe potuto ottenere, si rivolse verso di me ed io risposi al giudice di sì.
Alla fine dell’udienza, Dario e la moglie uscirono dall’aula assieme, parlando tra loro e io mi augurai che non ci fosse nessun ripensamento da parte sua, nessuna riconciliazione.
Un mese dopo, tornammo tutti e quattro in tribunale, dove Dario e Luciana firmarono per la separazione consensuale. Non avevano figli, né pendenze economiche, perciò fu un procedimento veloce. Ma io, per tutto il tempo che siamo stati in tribunale, anche se sentivo lo sguardo di Dario su di me, mi sforzai di non guardarlo.
Fuori dal tribunale Luciana mi salutò frettolosamente, ignorando sia il suo ex marito sia il suo avvocato, e andò via. A quel punto Dario si rivolse al suo legale: lo ringraziò e poi lo congedò. Restammo da soli sulle scale e a quel punto fui costretta a guardarlo negli occhi, se non altro per salutarlo, ma in quel momento, sorridendo, mi disse:
«Ora che tu non sei più l’avvocato di Luciana e che adesso io sono ufficialmente tornato single, vuoi finalmente accettare di venire a cena con me una di queste sere?» 
Dopo un momento di stupore, perché pensavo che non me lo avrebbe più chiesto, sorrisi e gli risposi di sì. 
«Allora perché attendere uno di questi giorni? Andiamo subito a pranzo, visto che mi sono preso una giornata di riposo dal lavoro».
E così, nel giorno che segnò la fine del matrimonio tra Dario e Luciana, ebbe inizio la nostra storia. 
Dopo il pranzo andammo al parco, ci sedemmo su una panchina e cominciammo a fantasticare di noi, delle nostre aspettative, dei nostri progetti e sul nostro futuro.


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