MENU

MATILDE: CONOSCIUTA ALLA STAZIONE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

1
MAR
2018

Proprio nel momento in cui ho aperto la portiera del taxi per scendere, l’orologio della stazione segnava le 17,58. la lancetta lunga è andata avanti di un minuto: ricordo benissimo quel movimento a scatti, seguito dal fischio di un treno che stava partendo. Ero carico di pacchetti e valigia, l’autista non aveva il resto della banconota che gli avevo allungato e mi sono dovuto sbottonare cappotto e giacca per cercare gli spiccioli in tutte le tasche.
Dietro al mio taxi se n’è fermato un altro. È scesa una giovane donna e si è precipitata verso l’ingresso della stazione trascinandosi dietro due enormi valige che sembravano piuttosto pesanti.
Ci siamo rivisti qualche minuto più tardi, in coda davanti alla biglietteria.
«Un biglietto di seconda per Civitanova Marche, solo andata». L’ho sentita chiedere, ed io non ho fatto altro che ripetere quello che aveva detto lei:
«Uno di seconda per Civitanova Marche». Poi ho raccattato valigia e pacchetti e mi sono messo a correre ma quando sono arrivato sulla banchina, il treno era già in movimento. Mi sono guardato intorno e a pochi metri da me ho visto la giovane donna con le sue due valige.
«L’abbiamo perso». Ha osservato. E queste sono state le prime parole che mi ha rivolto, anche se non ero sicuro che stesse parlando con me.
«Sa quando parte il prossimo treno?» Ha chiesto.
«Alle 23 e 18». Le ho risposto, guardando il mio orologio anche se ce n’era uno grande e luminoso che sovrastava il marciapiede.
«Forse è meglio lasciare le valige al deposito bagagli e andare a mangiare qualcosa». Ha proseguito, mentre io continuavo a non capire se parlasse fra se o con me.
Se fossi stato solo, non avrei certo pensato di lasciare le valige al deposito bagagli, avrei preso le mie cose e sarei andato al buffet della stazione, poi mi sarei seduto in un angolino e, aspettando il mio prossimo treno, avrei estratto dalla valigia il mio libro e mi sarei messo a leggere.
L’ho seguita meccanicamente. Lei, per la verità non mi aveva chiesto niente, mi sono avvicinato io e le ho chiesto se potevo aiutarla a portare le sue valige.
«Lei è di Macerata?» Ha chiesto, e io ho risposto di no, che abitavo in una piccola frazione a pochi chilometri dal capoluogo.
«Per caso conosce un certo signor Savino? A Macerata dovrebbe essere il titolare di una ditta d’import-Export».
«Quello dell’Europa tour Express?» Chiesi, e alla sua risposta affermativa risposi di sì che lo conoscevo e che era stato anche un mio paziente.
Lei mi guardò con curiosità, forse chiedendosi chi fossi.
«Sono un medico e ho uno studio a Macerata e uno Villa Potenza» e proseguii:
«Mi trovo qui a Bologna per un congresso. Sono venuto in macchina con un mio collega, ma è dovuto rientrare anzitempo e ora eccomi qui, in attesa del prossimo treno». Poi, non so perché, ho aggiunto che dovevo assolutamente tornare a casa il più presto possibile perché in mattinata avevo degli appuntamenti già fissati e delle visite domiciliari da svolgere. E le dissi che avevo perso il treno a causa di tutte le commissioni di cui mi aveva incaricato mia moglie: andare a trovare una sua anziana parente, libri e spartiti musicali da acquistare sempre per lei che è un’insegnante di musica al conservatorio di Macerata, eccetera.
Intanto avevamo raggiunto il deposito bagagli, lasciato le valige e stavamo tornando indietro.
«Possiamo presentarci, se crede? Io mi chiamo Matilde Sfarzi». E allungò la mano.
«Piacere. Dottor Anselmo Taurino». Le risposi, fermandomi davanti all’ingresso del buffet della stazione.
«Al buffet? No. A quest’ora non avranno niente di buono. Venendo in stazione, mi sembra di aver visto una trattoria non lontano da qui». Mi disse, e senza nemmeno attendere la mia risposta s’incamminò verso l’uscita. La seguii e assieme attraversammo la piazza, affrettando il passo per evitare le automobili in transito.
Con tutto il tempo che avevo a disposizione, sarei potuto andare a cena dalla zia di mia moglie, dal mio amico e collega Luigi Gagliardi o da altri, che di solito ci rimangono male se scoprono che sono stato a Bologna e non sono andato a trovarli, invece seguii docilmente e in silenzio quella sconosciuta.
Entrammo in un locale che non conoscevo: stretto e male illuminato che aveva le pareti rivestite di legno scuro e una fila di sgabelli lungo il bancone. Matilde si era guardata un attimo intorno e poi si era andata ad appollaiare su uno di essi. Sembrava volersi mettere in mostra: era magrissima, bruna, con un filo di rossetto sulle labbra.
Di solito non bevo molto, e poi avevo già preso qualcosa di forte da Gagliardi ma ordinammo lo stesso del vino rosso e se mangiando i nostri bicchieri rimanevano vuoti, tornavamo a farceli riempire. Nel locale c’erano altri avventori, non molti, ma lei li passò in rassegna a uno a uno e si vedeva che voleva solo farsi notare.
Finito il frugale pasto siamo usciti e, notando che stava piovendo, abbiamo preso un taxi e ci siamo fatti portare in un piano bar che conoscevo. Abbiamo ordinato una bottiglia di vino: un Borgogna bianco che parlando e ascoltando musica d’altri tempi abbiamo lentamente scolato e ordinato dell’altro. Le chiesi come mai stesse andando a Macerata, e mi rispose che era laureata in economia e commercio e che dopo aver inviato curriculum a destra e a sinistra, aveva ricevuto l’invito dal signor Savino a presentarsi nella sua azienda per un periodo di prova.
«Sono disoccupata, ho trent’anni suonati e l’idea di trasferirmi per qualche tempo nelle Marche non mi dispiaceva». Rispose.
Passata la mezzanotte, eravamo ancora lì, in quel piano bar a sorseggiare vino bianco, ascoltare musica e a chiacchierare. Ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere e a un dato momento mi sono reso conto di essere quasi ubriaco. Siamo andati via a piedi; ero io che volevo camminare, respirare un po’ d’aria fresca. Le strade erano quasi deserte, piene di pozze d’acqua. Lei camminava al mio fianco, con i tacchi troppo alti e per non cadere si aggrappava a me. Entrammo in un bar che trovammo aperto e ordinammo del cognac, due bicchierini o forse di più.
Eravamo allegrissimi, tutto ci faceva ridere e alle due di notte successe quello che succede sempre in questi casi: finimmo in un alberghetto di poche pretese e facemmo l’amore con tale furia, con tale ardore, come non mi era mai capitato prima.
«Che cosa racconterai a tua moglie?» Chiese, quando ci quietammo.
Con quella donna che conoscevo solo da qualche ora, mi stavo comportando da innamorato e mi sentii perso, disorientato e le risposi che avrei telefonato a mia moglie per dirle che avevo perso il treno, che ero stanco e avevo preferito fermarmi a dormire a Bologna.
«Ci penserò domattina». Conclusi.
Non so se le ho voluto bene sin da quella notte, ma di certo, quando abbiamo preso un po’ dopo le sette il treno per Civitanova Marche, non riuscivo più a concepire la mia vita senza di lei.
Nello scompartimento eravamo seduti uno di fronte all’altra e ci tenevamo per mano. Il treno, come tutti i locali, si fermava a ogni stazione e così avemmo modo di parlare. La sconsigliai di andare a lavorare per quel Savino, perché era sì titolare di una ditta di export ma navigava in cattive acque e alla fine del mese non pagava nessuno. Le dissi di darmi un po’ di tempo: ci avrei pensato io a trovarle un lavoro, anche se ancora non avevo nessuna idea di come avrei fatto. Ma avevo una tale paura di perderla che le dissi che per il momento l’avrei fatta alloggiare in albergo, che sarei andato a trovarla spesso, che spesso avremmo cenato insieme e che intanto mi sarei dato da fare.
Arrivato alla stazione di Civitanova Marche, mentre prendevamo un taxi per farci portare a Macerata, mi resi conto che si era fatto terribilmente tardi, che i miei appuntamenti erano saltati e che le visite a domicilio le avrei potute svolgere soltanto nella tarda serata.
«Ti telefonerò, oppure passerò direttamente io… no, aspetta. Non potrò essere da te questa sera, perché ho visite sino a tardi. Vieni tu da me, in ambulatorio. Nello studio di un medico entra chiunque e nessuno sospetterà niente». Poi le scrissi l’indirizzo su un foglietto di carta e le spiegai il percorso che avrebbe dovuto fare per raggiungermi.
Giunti a Macerata, dissi al conducente di portarci all’albergo Europa e alla proprietaria, che conoscevo, ho detto che la signorina era una mia collega e che si sarebbe fermata in città per qualche giorno e che per le spese avrei pensato io.
Quando ci siamo salutati, non ci siamo baciati. Mi sono limitato a stringerle la mano, ma risalito sul taxi già soffrivo per la sua mancanza.
Giunto a destinazione, chiamai la domestica per farmi aiutare a portare in casa i pacchi e pacchettini che avevo acquistato per mia moglie; chiesi se nella sala d’attesa ci fossero pazienti e lei, abbassando e alzando il mento più volte, rispose di sì. Entrato in casa, sebbene sapessi benissimo che a quell’ora si doveva trovare in conservatorio, chiesi di mia moglie e la domestica rispose che era uscita per andare a scuola.
Ho fatto la doccia, mi sono sbarbato e sono corso in studio. Era da poco passata la mezza e trovai l’ambulatorio pieno di gente e un’atmosfera grigia.
Visitai un bambino, poi un’anziana paziente che ogni settimana veniva da me per farsi misurare la pressione arteriosa, per chiedere nuovi farmaci o nuove ricette.
A poco a poco, dentro di me prese forma l’idea di assumere Matilde: come mia aiutante, come mia infermiera o segretaria. Continuavo a visitare e intanto pensavo a Matilde: temevo che ci avesse ripensato, che non venisse. Ma quando ho accompagnato alla porta un’altra paziente, lei era lì, seduta, tra le altre persone. Mi sono avvicinato e le ho detto semplicemente: «Entri».
Quando chiusi la porta dietro di noi, l’ho abbracciata e le ho detto: «Sei venuta!»
Non sapevo come sarebbe andata a finire: però ero certo che non potevo più farne a meno di lei. La guardavo e sul suo viso cercavo le tracce di quello che avevamo provato la notte precedente, ma non le trovai. Avevo ancora un’ora di visite, altri pazienti in attesa e avrei potuto dirle di tornare più tardi o di aspettarmi in albergo, ma avevo paura che se fosse andata via non sarebbe più tornata, e allora le dissi:
«Senti… Rimani qui a pranzo. Sì. Diremo a mia moglie che sei venuta da me questa mattina con una raccomandazione del dottor Gagliardi di Bologna, che io conosco bene ma lei non sa chi sia… Potresti parlare anche di lavoro, di Savino. Anzi sarebbe bene lo facessi. Vedrai, andrà tutto bene, lascia fare a me. Vieni…» E parlando sfioravo le sue labbra con le mie.
In salotto trovai Margherita, mia moglie, che era tornata in quel momento dal conservatorio, e le dissi.
«Ti presento una signorina che mi è stata raccomandata dal dottor Gagliardi, un mio collega di Bologna. È venuta per lavorare all’Europa tour Express di Savino, ma qui non conosce nessuno… L’ho invitata a pranzo e ora l’affido a te». E detto questo le lasciai sole e tornai in ambulatorio per riprendere le visite. Avanti un altro! Ancora un altro! Apra la bocca. Tossisca. Dica trentatré. Faccia un bel respiro. Ci vediamo la settimana prossima. Mi raccomando, segua la cura.
Mentre visitavo, lei era di là, e se mi avvicinavo alla porta potevo sentire il mormorio della sua voce ed ero tranquillo.
Quando sono tornato da loro, le due donne stavano parlando amabilmente e Matilde teneva sulle ginocchia la mia secondogenita.
«Ho avuto il piacere di conoscere sua moglie». Mi disse Matilde, senza ironia e senza lasciar trapelare nessuna emozione.
Mia moglie intanto si era alzata per andare a controllare se il pranzo fosse pronto e io, per poterle parlare, la seguii.
«Credi sia opportuno lasciarla in albergo finché non troverà una sistemazione migliore? Me l’ha caldamente raccomandata un collega e mi ha anche chiesto di darle una mano… Che dici, la invitiamo a trattenersi qui da noi? È disoccupata. Non è nemmeno sicura del posto che le è stato offerto, ma di questo, se vuoi, ne possiamo parlare in un secondo momento». Le dissi.
«Se sapessi che si tratta solo di qualche giorno, sì, ma poi…?» Chiese mia moglie.
«Ci penseremo». Le risposi sbrigativamente e, prese due bottiglie di vino dal frigo tornai sorridendo da Matilde.
Ero così euforico, così contento, che avrei voluto accompagnarla in albergo a prendere le sue cose e portarle a casa mia, ma la proposta non poteva partire da me.
«Sua moglie è stata così gentile da invitarmi per qualche giorno. Le spiacerebbe accompagnarmi, dottore? Sa, ho con me due valige enormi…» E allora capii che volpe fosse davvero Matilde.
Mentre ci stavamo dirigendo verso l’ingresso, Margherita mi sussurrò:
«Lasciala salire da sola. È più conveniente… La metteresti a disagio se la seguissi sino in camera».
Noi due soli, nella mia automobile, io al volante e lei accanto a me, sulle strade che percorrevo ogni giorno. Ero felice, euforico. A tutto il resto avrei pensato in seguito e di quelle giornate non ho dimenticato niente nemmeno un momento.
Io uscivo di casa presto per le visite a domicilio poi, sapendo che Margherita e mia figlia stavano a scuola, tornavo a casa e, prima di iniziare le visite in ambulatorio, facevo in modo di rimanere da solo con Matilde.
Il tempo passava e intanto mia moglie intuiva qualcosa, anzi, ci avrei messo la mano sul fuoco, ma non sapevo prendere nessuna decisione, se non quella di continuare a tenere Matilde con me. Fatto sta che una mattina Margherita caricò in macchina le valige di Matilde e le portò da una sua conoscente che aveva un appartamentino da affittare. E io capii che non potevo più andare avanti così. Ma a quel punto subentrò in me la paura di perderla e una sera, che ero andato a trovarla a casa sua, nel suo piccolo appartamento fuori mano e fuori da occhi indiscreti, Matilde mi confidò:
«Vedi… Sono già al secondo mese… Che intendi fare? Che facciamo?»
Quella domanda mi mandò nel panico. Cosa avrei potuto fare? Pensai a mia moglie, alle mie figlie, allo scandalo che sarebbe seguito. Persi la testa e in un attimo successe tutto.
Vedo ancora il suo viso incredulo, la sua smorfia di dolore mentre le stringo le mani intorno al collo. Aveva gli occhi sbarrati, cercava di divincolarsi, scalciava, cercava di urlare, poi lentamente scivolò a terra e rimase immobile.
Il giorno dopo, i giornali riportarono la notizia che in un piccolo appartamento di periferia la domestica, entrando in casa, aveva rinvenuto per terra il corpo nudo della sua padrona e quello del suo amante. Il corpo della donna presentava tracce di violenza ed evidenti segni di strangolamento, mentre quello dell’uomo, sebbene non presentasse nessun segno di aggressione, ma solo una scia di bava bianca che gli usciva dalla bocca, segno di probabile avvelenamento, giaceva esanime su quello della donna. Comunque, continuava il cronista, è stata disposta l’autopsia su entrambi i corpi e così sarà fatta piena luce sulle cause dei decessi. Quanti lo conoscevano e tutta la comunità del piccolo centro in cui risiedeva e operava il dottor Anselmo Taurino, non credono a quanto ipotizzano gli inquirenti, e cioè che abbia ucciso lui la donna e poi si sia avvelenato, ma ritengono molto più plausibile che l’illustre professionista e la sua paziente siano rimasti vittima di un’aggressione o di una rapina andata male.



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor