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LA COMPLICITÀ DI UNA FOTOGRAFIA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

31
MAG
2018

Torno a casa depressa. Quando mi sento così, non c’è che una soluzione: chiamare Carla. Non perché sappia consolarmi, anzi, proprio l’esatto contrario: non mi prende mai sul serio e sminuisce i miei problemi. Ma la cosa migliore è che è sempre sincera, quindi alla fine mi persuado che ha ragione lei.
La chiamo e le spiego di aver bisogno di parlarle subito. È pur sempre la mia migliore amica e così, puntuale, alle otto è sotto casa mia:
«Allora, cosa è successo? Sputa il rospo». Mi dice diretta.
Carla, di solito sempre elegante e impeccabile, questa sera indossa un paio di jeans e una felpa, nasconde il viso dietro enormi occhiali da sole e non porta un filo di trucco. Prova che è una vera amica, e che è uscita in fretta per assecondare i miei malumori.
«Per ora non dirmi niente. Stavo per mettermi a tavola. Ho una fame. Ti va bene se andiamo a farci una pizza?». Chiede.
«E pizza sia». Le rispondo, e allaccio la cintura.
«Carla, non riesco più a tenermelo dentro, devo togliermi il peso… Sto così male. Rischio grosso sul lavoro».
Mormoro, mentre lei fa le ordinazioni al cameriere.
«Cosa ti sta succedendo?» Mi chiede, aggiustandosi sulla sedia e togliendosi gli occhiali.
«Fra tre mesi scade il mio contratto e anche il periodo di prova, e un dirigente, il dottor Valdevis, mi ha detto che sono molto indietro e vuole… vuole… Non riesco nemmeno a dirlo…»
Carla è sempre a disagio quando si tratta di consolarmi, è visibilmente turbata, ma dice:
«Ivana! Per favore, calmati».
«Non capisci. Vuole…»
«Vuole, vuole? Ti decidi a parlare?»
«Ha detto che se continuo di questo passo non riuscirò a superare il periodo di prova e si vedrà costretto a comunicarlo in direzione. Ciò significa che non sarò più assunta definitivamente e nemmeno a tempo determinato e questo comporta che sarò costretta a lasciare anche l’appartamento qui in città e tornare in paese, dai miei».
«Lo farebbe davvero?» Mi chiede, addentando il primo boccone di pizza.
«Certo. Lui fa parte della commissione e non è soddisfatto del mio rendimento. Dice che rispetto agli altri sono molto indietro, che non ho spirito d’iniziativa, che non metto attenzione in ciò che faccio, che …»
Prendo il fazzolettino dalla borsa e mi soffio rumorosamente il naso.
«Se è così, la cosa è veramente seria. Ma non ti devi abbattere, una soluzione ci deve pur essere. Cerca di impegnarti, mettici più attenzione. Dimostrati volonterosa».
«Sto pensando di non dargli questa soddisfazione e di dare prima io le dimissioni». Dico.
«Ma non se ne parla nemmeno. Primo, non devi dare questa soddisfazione a nessuno e poi il periodo di prova non è ancora terminato. Vai avanti, poi si vedrà». Mi zittisce subito.
«Preferisco così. Non mi va di essere umiliata davanti a tutti i miei colleghi».
«Ma perché non chiedi aiuto alla tua capufficio, quella che dici che è simpatica e ti ha preso a ben volere. Spiegale la situazione, dille che il lavoro ti piace, che sei un po’ indietro ma che hai voglia di apprendere, che sei disposta a impegnarti di più e fare tutti i sacrifici necessari. Lei potrebbe darti una mano, intercedere per te».
«Anche lei si è lamentata di me…» Le dico, e ricomincio a soffiarmi il naso.
«Ma come hai fatto a ridurti così?» Mi chiede perplessa.
«Non lo so. Il lavoro mi piace, ma è complicato, irto di difficoltà: procedimenti astrusi, sempre nuove disposizioni da osservare, continui controlli… E poi il dottor Valdevis mi ha detto che anche altri dirigenti non sono contenti di me. Figurati, con uno ci ho anche litigato. Ma io non penso di essere messa così male, come dicono loro».
Lo credo veramente, e forse per questo mi sembra tutto così ingiusto, inverosimile.
Rientro a casa abbastanza tardi, un po’ sollevata dalle parole e dai consigli di Carla, ma non ho sonno e allora mi butto sul divano e mi metto davanti alla tv.
I giorni scorrono e sul lavoro mi impegno, tanto che finalmente anche il dottor Valdevis sembra essersene accorto, almeno non mi riprende più così spesso. La sera torno a casa e studio. Cerco di tenermi costantemente aggiornata, di non farmi trovare impreparata.
Sto sfogliando un opuscolo che riporta grafici e numeri incomprensibili, quando sento squillare il cellulare e sul display appare il nome di mio fratello.
«Mauro… è successo qualcosa?» Gli domando preoccupata.
«No, no. Tranquilla. Che stai facendo? Ti ho disturbato?»
«Figurati, nessun disturbo, è solo che non mi chiami mai e allora…»
«Ti ho chiamata perché volevo invitarti all’inaugurazione della mostra fotografica dove espongo anch’io. Mi ci sono messo d’impegno e questa volta credo di essere riuscito a fare veramente un buon lavoro. Ti va di venire?»
«Certo che ci vengo! Ma quando si inaugura questa mostra e dove si tiene?» Esclamo, risorgendo da dentro la pila di grafici e numeri che intanto continuano a ronzarmi in testa.
«Domani sera alle sette, alla galleria Tarquinia». Risponde.
«E posso venire con Carla?» Chiedo.
«Certo. Però mi farebbe piacere se portassi anche Alessia. Volevo invitarla ma purtroppo non ho più il suo numero». Mi risponde, e tronca frettolosamente la comunicazione.
Alessia è una farmacista, nonché mia amica che da sempre ha un debole per mio fratello.
Alle sei in punto Carla è sotto il mio portone e quando le dico che dobbiamo passare a prendere Alessia lei fa una smorfia di disappunto ma mette la freccia e si avvia verso casa sua.
A causa della lentezza di Alessia, alla galleria Tarquinia arriviamo tardi, appena in tempo per il taglio del nastro e poi entriamo.
La galleria è suddivisa per settori, e io, non essendo particolarmente interessata agli altri artisti, mi dirigo subito verso l’area riservata a mio fratello.
Ed eccole, appese alle pareti, le famose foto artistiche di Mauro: Una foglia gialla sospinta dal vento; un senzatetto coperto di stracci che dorme sotto i portici; dei colombi che si bagnano in una fontana; due innamorati si baciano di notte in una piazza deserta; un lenzuolo bianco steso; la luna piena. L’assortimento è vario e non si può dire che mio fratello sia monotematico.
E fra tutte le foto, eccolo: il mio ritratto in bianco e nero, che mi coglie del tutto impreparata a vederlo lì. La sorpresa è tanta, e mi avvicino per guardarlo meglio. La didascalia recita: “L’assoluta bellezza dell’essere”. È una foto che mi ha scattato qualche tempo fa.
Mentre sono assorta a guardare la foto, mi raggiunge Mauro e mi cinge le spalle.
«Mauro… sono così contenta. Sei molto bravo e questa foto è… Non trovo le parole, ma mi piace e sono commossa che tu l’abbia voluta esporre».
«Forse avrei dovuto avvisarti, chiederti prima il permesso, ma poi all’ultimo momento ho deciso, ed eccola qui».
Mentre stiamo parlano si avvicina Alessia e, sicura che le avrebbe fatto piacere restare un po’ da sola con mio fratello, mi estraneo. Non si sa mai, Mauro potrebbe finalmente decidersi e far nascere qualcosa d’intrigante tra loro.
«Sei tu la ragazza della foto?» Sento chiedere alle mie spalle. Mi volto e lo vedo.
La voce appartiene a un uomo sulla quarantina. Ha i capelli e gli occhi chiari, le mani lunghe e affusolate, il viso abbronzato, elegante e mi sorride.
«Sì, sono io, l’ha scattata mio fratello, e in questo settore espone lui».
Rispondo con un pizzico di orgoglio e tanta curiosità di sapere chi sia.
«È molto bella». Osserva, e poi aggiunge:
«Se permetti, mi presento. Io sono Manuel Valdevis». E mi porge la mano.
«Valdevis?» Chiedo corrugando la fronte.
«Sì. Valdevis. Perché, ti dice qualcosa?»
«Ma che combinazione. Come quel bastardo del mio dirigente. Non è elegante dirlo, lo so, ma in effetti è così. Tu porti lo stesso cognome di un dirigente bastardo e presuntuoso dell’azienda in cui lavoro».
«Valdevis Mariano, uno dei dirigenti della Cosmesi Stars?»
«Sì». Rispondo flebilmente. Ormai certa di aver commesso una grossa gaffe e di conseguenza essermi messa ancora una volta nei guai.
«È mio padre». Risponde amabilmente, ma il suo tono non sembra offeso.
Scema, scema, scema. Mi sento avvampare e cerco invano di trovare qualche parola che possa in qualche modo salvare quel poco di dignità che mi rimane.
«Non preoccuparti. A volte penso anch’io che lo sia». Mi risponde, ma io continuo a tenere lo sguardo basso, a guardare la punta delle scarpe.
«Scusami. È che io lavoro proprio alla Cosmesi Stars e… e lui è il mio capo. Ma non è per niente contento di me, e non perde occasione per ricordarmelo. E poi, scusa, chi non si lamenta dei propri superiori. Non è forse così?». Gli rispondo con l’ultimo sospiro che mi rimane.
«Certo. Ma lasciamo stare mio padre e dimmi qualcos’altro su questa fotografia».
«E tu cosa fai nella vita?» Gli chiedo, cercando di recuperare un po’ di terreno.
«Sono avvocato e mi occupo di controversie internazionali e per questo viaggio molto».
«Bello. In pratica sei pagato per fare quello che ti piace». Gli rispondo.
«Non è così entusiasmante come credi. Be’ sì, ci sono dei vantaggi, si viaggia, si vedono posti nuovi, ma in realtà vorrei vederli con la persona giusta. Ma basta parlare di me. Ci conosciamo da appena cinque minuti e ti sto già annoiando. Scusami». Mi guarda e sorride.
«No. Anzi, mi interessa davvero». Replico io, cercando di ritrovare un po’ d’equilibrio.
«Allora potrebbe essere il pretesto per rivederci una seconda volta e continuare a parlarne».
Ribatte lui, strizzandomi l’occhio con espressione intrigante. Io lo guardo e penso che lo conosco solo da cinque minuti e già mi piace da morire.
Mentre stiamo parlando, veniamo interrotti da un suo amico, il quale dice che si è fatto tardi e vuole portarsi via anche Manuel.
«È stato bello conoscerti». Gli dico, e gli allungo malinconicamente la mano.
«È stato bello anche per me. Davvero». Mi risponde e me la stringe.
D’ora in poi, quando vedrò il dottor Valdevis, non potrò fare a meno di chiedermi dove si possa trovare suo figlio. Mi sono detta mentre si stava allontanando.
Tornata a casa, cerco su Google “Manuel Valdevis” e quando leggo di chi si tratta, rimango sorpresa per la sua statura professionale. Poi cerco altre notizie e scopro che non è sposato.
Nei giorni successivi mi dedico anima e corpo al mio lavoro. Nei corridoi incontro il dottor Valdevis e mi sento salutare con modi mai adoperati prima nei mei confronti:
«Dottoressa, buon giorno, come va?»
«Bene grazie». Gli rispondo, e abbasso gli occhi.
«Continui così, perché è migliorata parecchio ultimamente». Sentendo le sue parole sorrido, ma vorrei avere l’ardire di chiedergli se magari suo figlio gli avesse parlato di me.
Sono tornata a casa e sono assorta nella lettura di un romanzo strappalacrime, quando il mio cellulare comincia a vibrare e sul display compare un numero che non conosco.
«Ivana?». La riconosco, è la sua voce.
«Sì, sono io». Rispondo.
«Ti disturbo? Ho avuto il numero da tuo fratello. Ho comprato la fotografia, L’assoluta bellezza dell’essere, e mi sembrava giusto fartelo sapere e vorrei festeggiare l’evento con te».
«Davvero?» Riesco a rispondere.
Alle otto meno dieci sono pronta e scendo. Ho il mal di stomaco delle grandi occasioni. Sono tesa come se dovessi affrontare un esame, ma comunque eccitatissima.
«Scusa il ritardo». Mi dice, interrompendo il filo dei miei pensieri.
Scende dalla macchina e io vengo attraversata da un brivido.
Tra noi aleggia un tenue imbarazzo. Ci facciamo domande all’apparenza insignificanti, ma intanto cerchiamo di conoscerci meglio, di scoprire l’intimo dell’altro. Mi dice che si è laureato a Roma, che il padre avrebbe voluto averlo con lui alla Cosmesi Stars e che è single perché non ha ancora trovato l’anima gemella…
Lui parla io lo sto ascoltando assorta, mentre le farfalle mi fanno il solletico nello stomaco.
Tornata a casa e non riesco a prendere sonno, rifletto sulla serata appena trascorsa con Manuel e penso che sia stata una delle più belle di sempre.
Il mattino, sul lavoro, ho la testa tra le nuvole e non riesco a concentrarmi. Penso a Manuel, alla serata trascorsa con lui e a quelle che vorrei trascorrere ancora insieme. La giornata è lunga ma una volta a casa mi rilasso e aspetto la sua telefonata. Quando mi chiama è già tardi, ma io ho voglia di vederlo e allora accetto il suo invito. D’altronde sono pronta e truccata da un pezzo.
Quando mi fa uno squillo scendo subito e ci incamminiamo verso la sua auto. Non abbiamo una meta precisa, giriamo e intanto parliamo di come abbiamo trascorso la giornata. Io racconto dei miei piccoli progressi sul lavoro e di come è cambiato l’atteggiamento di suo padre nei miei confronti, ma all’improvviso lui mi interrompe e butta lì:
«Ti va di venire a casa mia?»
«Calma. Non ti sembra di correre un po’ troppo?» Gli rispondo.
«Sì, lo so, Ma sai… credo che sarebbe il luogo perfetto dove terminare la serata».
Umetto le labbra e gli rispondo preoccupata:
«Sarà per un’altra volta. Questa sera limitiamoci a fare una passeggiata e magari andiamoci a prendere un gelato». Lui sorride, sembra intenerito e non si accorge che il mio viso è in fiamme.
L’indomani, un lunedì, dopo aver trascorso una domenica particolarmente rilassante al paese, a casa dei miei, sento nell’aria il diffondersi di qualcosa di impalpabile, surreale. Sento che qualcosa potrebbe accadere e provo uno strano turbamento. Quello che avverto quando c’è in ballo qualcosa d’importante, e così, quando mi telefona, mi ritrovo ad accettare il suo invito.
Seduta accanto a lui, avvolta dal buio dell’abitacolo della macchina e con la mano stretta nella sua, sento il mio cuore accelerare i battiti.
A casa sua, davanti alla tavola appena apparecchiata, improvvisamente i nostri sguardi s’infiammano.
«Io non ho tanta voglia di cenare. Non ho poi tutta questa fame». Mi dice.
Il silenzio ci avvolge ed io non vedo l’ora che accada.
Manuel si avvicina e timidamente mi sfiora le guance con le dita. Non parliamo più. Non ceniamo più. Lasciamo che i nostri corpi si cerchino e cedano al desiderio di stare insieme.
Questa è una notte speciale. In camera da letto c’è un buon profumo di lavanda. Io divento languida e mi lascio andare. Come vorrei che mi dicesse:
«Non andare più via. Resta qui per sempre. Resta con me».



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