MENU

UN AMORE A SCOPPIO RITARDATO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

14
GIU
2018

Ci siamo conosciuti sul treno, tornando a casa, nella nostra città. Lui venne a sedersi di fronte a me, mi dette un’occhiata e bisbigliò forse un ciao. Era molto carino: capelli lunghi, occhi castano chiari e un sorriso aperto e rassicurante. Ma io, per evitare di incrociare il suo sguardo, lasciai cadere i capelli davanti agli occhi e continuai a tormentare il mio cellulare. Lui si mise a leggere un libro ma, troppo attratto dalle mie gambe quasi del tutto scoperte, ripose il libro nello zainetto e ne tirò fuori la macchina fotografica. La campagna assolata scorreva veloce davanti a noi e lui cominciò a scattare foto.
«Guarda che con il finestrino chiuso e il sole che riflette solo la tua immagine, non farai altro che collezionare foto della tua faccia nascosta dalla macchina». Gli dissi ammiccando.
«Lo so, ma non sto scattando, sto solo controllando lo zoom e la luminosità». Mi rispose seccato, e lasciò cadere le braccia e la macchina fotografica sulle ginocchia.
«Invece io penso che tu stessi cercando di scattarmi delle foto di nascosto?»
«No, perché dovrei farlo?» Rispose, dimostrando tuttavia tutta la sua sorpresa per essere stato scoperto.
«Comunque, se vuoi scattarmi una foto, fallo pure. Non serve che lo faccia di nascosto».
«Ma ti dico che non avevo nessuna intenzione di scattarti una foto». Replicò.
«Va be’, voglio crederti. Stai tornando a casa anche tu, o stai andando in vacanza?» Gli chiesi, cercando di stemperare il suo evidente imbarazzo.
«Sto tornando a casa e mi chiamo Enzo, e tu?». Rispose.
«Io Aurora e sono di ritorno da Londra. Ci vive mia sorella e sono andata a trovarla».
Durante il viaggio continuammo a parlare. Mi disse che era figlio di una coppia separata, che viveva con la madre e una sorella e stava tornando a casa per preparare l’ultimo esame universitario.
Io risposi che dopo il diploma avevo smesso di studiare e ora aiutavo mio padre nel suo negozio di fioraio, e poi chiesi:
«In cosa ti stai laureando?»
«In medicina. Poi continuerò con la specializzazione in neurochirurgia».
«Ma la medicina non è una facoltà a numero chiuso, di quelle che si accede solo dopo aver superato gli esami d’ammissione?»
«Sì, certo. Ma quel periodo è ormai lontano, ora devo solo pensare a laurearmi, specializzarmi e poi iniziare a lavorare».
«Tutto questo in un colpo solo? Sei per caso un genio?» E mi misi a ridere.
«Io sono fiducioso, anzi, sono certo che andrà tutto come ho programmato».
«Sei così sicuro di te che non mi resta che farti gli auguri».
«Guarda che io ce la farò, ne sono sicuro. Anzi, sai che ti dico? Ora ti lascio il numero di casa mia e tu, tra quattro anni, chiama mia madre e chiedi di me e vedrai cosa ti risponderà». E, detto questo, frugò nello zainetto, estrasse una biro e un foglietto e dopo averci scarabocchiato sopra un numero, me lo allungò.
«Prendi».
«E che ne dovrei fare?» Chiesi, rigirando il foglietto tra le mani.
«Semplicemente quello che ti ho detto. Tra quattro anni chiama questo numero, chiedi di me, e vedrai che rimarrai sorpresa da quello che ti sentirai rispondere». E detto questo, si piegò in due per riporre il blocchetto e la penna nello zainetto che teneva tra i piedi.
Quando il treno arrivò in stazione ci salutammo, ma subito dopo ci ritrovammo sullo stesso autobus. Lui era rimasto in piedi, mentre io avevo trovato posto accanto a una signora anziana, ma si vedeva che non vedeva l’ora che il posto accanto al mio si liberasse.
Dopo tre fermate la signora si alzò e con un balzo lui venne a sedersi accanto a me.
«Rieccoci». Mi disse, e sfoderò un sorriso da marpione.
«Mi stai seguendo?»
«Seguendo? Noo. Cosa te lo fa pensare? Sto solo andando a casa, e questo è l’autobus che ferma proprio lì vicino».
Quel ragazzo mi incuriosiva e avrei voluto chiedergli tante cose, ad esempio quanti anni avesse, se fosse single, ma mi trattenni perché si stava avvicinando la mia fermata.
«Scostati per favore, devo scendere».
Quando l’autobus si fermò, gettai un’ultima occhiata a quel ragazzo che si era alzato e stava sventolando una mano verso di me. Ricambiai il saluto alzando il braccio e scesi.
In seguito non mi capitò più di pensare a quel ragazzo un po’ naif e a quel biglietto che per non perderlo avevo custodito tra le pagine di un libro. Mesi dopo, però, mentre stavo tornando a casa, lo vidi attraversare la strada ed entrare in un negozio e allora, attenta a non farmi notare, lo seguii e fingendomi sorpresa, gli dissi:
«Allora avevo ragione… mi stai proprio pedinando». Lui si voltò sorpreso, mi guardò stupito e pronunciò il mio nome.
«Aurora. Sei Aurora, vero?»
«Certo che sono Aurora, ma tu perché mi stai seguendo». E detto ciò, per nascondere la soddisfazione che provai per averlo sentito pronunciare il mio nome, sollevai sin sopra il viso un paio di jeans e finsi di esaminarli.
«Ma che dici? Io non ti sto seguendo. È da un po’ che mi trovo qui dentro. Comunque devo dirti che mi fa piacere rivederti».
Gironzolammo ancora un po’ tra scaffali e cestoni e poi mi invitò a prendere un gelato.
«Be’, che mi racconti? Alla fine sei riuscito a laurearti?» Chiesi.
«Certo che ci sono riuscito, e mi sto già impegnando per la specializzazione. Tu il numero di casa mia ce l’hai ancora, vero? Conservalo, e ricordati che fra quattro anni, no aspetta, meglio fra cinque, dovrai chiamare casa mia per chiedere di me».
Quando ci salutammo chiese se gli davo il numero del mio cellulare, ma gli risposi di no, che non era il caso, che non ne vedevo il motivo, che era meglio lasciare le cose così, sospese. Se mai, aggiunsi:
«Ci sentiremo tra cinque anni, quando chiamerò casa tua per chiedere che fine hai fatto».
«Ma fra cinque anni chissà dove sarò». Rispose.
«Me lo dirà tua madre, non è così?»
Lui insistette, e avrebbe voluto anche trascorrere il resto del pomeriggio con me, ma gli risposi che avevo mille impegni e dovevo raggiungere il mio ragazzo che mi stava aspettando.
Sentendo che avevo il ragazzo sembrò rabbuiarsi e cambiò atteggiamento.
«Allora ciao». E io rimasi lì, stupita, guardandolo andare via.
Qualche tempo dopo mi trovavo in pizzeria col mio ragazzo, mia sorella e suo marito e lo vidi entrare assieme ai suoi amici. I nostri sguardi s’incontrarono, venne verso di me e ci salutammo. Gli presentai il mio ragazzo, mia sorella Greta e anche suo marito, poi, tornò dai suoi amici e io non smisi di sbirciare verso quel tavolo.
Trascorsero due anni senza che sapessi più niente di lui, poi, un pomeriggio, mentre stavo riordinando camera mia, da un libro scivolò fuori un foglietto ed era proprio quello che mi aveva dato Enzo. Mi sedetti sul letto e lo rigirai tra le mani, lessi e rilessi quel numero, alzai e riabbassai la cornetta più volte, poi mi decisi e composi il numero.
«Enzo, è per te. Rispondi». Sentii dire dalla madre.
«Pronto». E riconobbi subito la sua voce.
«Pronto…» Ripetei io.
«Pronto, sì, ho capito, ma chi sei?»
«Ciao, senti sono Aurora. Ti ricordi? Stavo riordinando la stanza e dalle pagine di un libro è scivolato fuori il foglietto che mi hai dato tu. Sono quella del treno…. Quello con il tuo numero di telefono, così ho pensato di chiamarti, anche se non sono trascorsi i cinque anni... Come stai?».
«Be’… bene» Rispose. E capii che era sorpreso, ma anche contento di sentirmi.
«Allora cosa mi racconti?» Chiesi.
Rispondeva a monosillabi. Non trovava le parole, o forse stava solo riordinando le idee, quando una voce femminile urlò:
«Ti decidi a mettere giù? Ti ho detto che sto aspettando una telefonata. Sbrigati».
«Forse disturbo? Sento che serve il telefono. Scusami». E stavo per chiudere.
«No, no. Aspetta, non chiudere. È solo mia sorella. Non riattaccare».
Ma intanto l’incantesimo di quell’istante era sfumato e lo stavo salutando.
«No. Aspetta, non chiudere. Piuttosto, che mi dici di bello?» Chiese.
Gli raccontai che da quella volta che c’eravamo incontrati in pizzeria non era cambiato molto, ma una cosa forse sì, una cosa era cambiata, con quel ragazzo non aveva funzionato e c’eravamo lasciati…
«Per il resto continuo ad aiutare mio padre nel negozio di fiori».
«Hai fatto bene a ricordarmelo».
«A ricordarti cosa?»
«Che tuo padre ha un negozio di fiori. Sai che figura avrei fatto se fossi venuto a prenderti con un mazzo di rose rosse in mano?»
«Che figura? Alle donne fa sempre piacere ricevere dei fiori, anche se non è il nostro caso, perché noi non siamo nemmeno amici, giusto?»
«Giusto? Sì…cioè no. Dai, un po’amici lo siamo, se no non mi avresti chiamato. Io non potevo farlo perché non mi hai voluto dare il tuo numero».
Quando sentii la sorella che urlando gli ripeteva di chiudere il telefono, e probabilmente nella stanza era entrata anche la madre per chiedergli di lasciare libero il telefono, d’istinto misi giù.
Una volta abbassata la cornetta, però, mi rammaricai di non avergli dato il mio numero, ma non ebbi il coraggio di richiamarlo.
Trascorse altro tempo, e un giorno mia sorella, tornata da Londra per stare un po’ con noi, mi disse che mentre si trovava in un negozio d’abbigliamento, aveva visto entrare quel ragazzo che le avevo presentato in pizzeria.
«Chi, Enzo?» Chiesi.
«Si lui. E ha chiesto se era pronto l’abito per la cerimonia nuziale. Forse si sposa».
Concluse.
Mi sentii attraversare da un brivido e corsi in camera mia a prendere il biglietto. Sulle pagine bianche trovai il suo indirizzo e il mattino dopo, appena il fattorino prese le chiavi del furgone e avvisò mio padre che stava per uscire, lo fermai e gli dissi che sarei andata con lui per aiutarlo nelle consegne. Poi presi il bouquet che avevo preparato e senza dire più niente lasciai che mio padre mi guardasse stupito.
Mi feci lasciare sotto casa di Enzo e mentre richiudevo lo sportello, dissi al commesso:
«Continua pure il tuo giro, e non dire niente a mio padre. Noi ci ritroviamo in negozio. Ma fai tutto con calma, senza fretta».
Il portone era spalancato, pieno di fiori, e un tappeto rosso risaliva le scale sino all’ascensore. Ritenendo che quegli addobbi servissero per un altro matrimonio mi stavo accingendo a citofonare a Enzo, ma in quel momento si aprirono le porte dell’ascensore e lui, tutto elegante e con una rosa bianca all’occhiello, si materializzò di fronte a me.
«Ciao. Ma che ci fai tu qui?» Mi chiese sorpreso.
«Sono venuta a farti gli auguri. Ho saputo che ti sposi».
«Mi sposo? Ah, gli addobbi. Ma non sono per me, è mia sorella che si sposa».
Volevo sprofondare, scappare via, ma non riuscii a mettere un passo.
«Ma dimmi Aurora, chi ti ha dato questa notizia, e perché mai ti trovi qui?»
«Te l’ho detto. Ero venuta a farti gli auguri, ma adesso…» Non sapevo da che parte volgere lo sguardo o cos’altro dire.
«Sono sceso per aspettare la macchina di mia sorella e anche perché sopra c’è una tale confusione… tra fotografi, parrucchieri, truccatrici e invitati, non si può mettere un passo». Rispose.
«Bene, allora se non ti devi più sposare… fai tanti auguri a tua sorella e dagli questo da parte mia».
«Ma il bouquet ce l’ha già».
«Allora tienilo tu. Fanne quello che vuoi, gettalo, buttalo». Risposi sempre più imbarazzata.
«No. Perché dovrei buttarlo. Potrei regalarlo a una ragazza che mi piace tanto, invece».
«Se è così, fai come vuoi». Risposi, avvampando di rabbia e senza sapere che altro aggiungere.
Nell’atrio si era radunata una folla: invitati e curiosi che stavano attendendo la sposa. E io mi sentivo sempre più a disagio nei miei soliti jeans, maglietta bianca e una giacca in finta pelle nera, e sarei voluta morire piuttosto che trovarmi lì, in mezzo a tutta quella gente elegante.
Cercavo Enzo per salutarlo e scappare via, ma lui era sparito.
«Scusami Aurora, sono andato a parlare con l’autista della macchina».
Enzo era tornato, mi stava parlando, ma io ero diventata una statua di cera, incapace di qualsiasi reazione.
«Ascoltami Aurora, sai cosa facciamo adesso? Tu vieni con me al matrimonio di mia sorella». E se non avesse pronunciato il mio nome, non ci avrei creduto.
«Cosa? Sei matto?» Gli risposi sbigottita.
«Sì, facciamo così, sbrighiamoci però. Andiamo a casa tua così ti cambi».
«Ma vedi come sono conciata. Sono senza trucco e i capelli poi, guardami…»
«Sei bellissima così. Facciamo in fretta però, dai».
Aggiunse, mentre la sorella stava uscendo dal portone avvolta dal suo abito bianco e con le damigelle che le tenevano lo strascico.
«Torniamo subito» Gridò Enzo alla sorella, e mi trascinò via.
«Enzo… Ma dove vai? Sei il testimone, che figura facciamo?» Gli urlò dietro lei.
Ma andò tutto bene, perché riuscii a convincerlo ad andare direttamente in chiesa, e solo dopo la cerimonia passammo da casa mia per cambiarmi d’abito.
Arrivati al ristorante, Enzo mi presentò agli ospiti dicendo che ero la sua ragazza, la sua fidanzata, e a sentirgli dire quella frase la prima a stupirsi fui io.
Poi si stupirono la sorella e anche la madre, ma a chi mi salutava dicendo piacere, rispondevo con piacere: Piacere. Io sono Aurora, la fidanzata di Enzo.



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor