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IL RACCONTO/LA NOSTRA PRIMA VACANZA DA SOLI

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

25
OTT
2018

«Se parto? Certo che parto. Ci ho messo un mese per convincere mio padre a lasciarmi andare via due settimane con Federico, e ora non mi lascerò certo sfuggire l’occasione, o mi farò prendere dal timore di trascorrere una vacanza all’estero, in Grecia con lui». Ho ripetuto alla mia amica Dolores: un metro e cinquantotto di presunzione e arroganza, la classica ragazza che pensa che come lei non ci sia nessuno, che crede di essere la più bella di tutte solo perché ha avuto qualche esperienza sessuale e detto no a un ragazzo che le faceva la corte e le portava dei regali.
«È tutto a posto. Federico è quello giusto». Le risposi. Anche se la gelosia e la paura di perderlo era l’altra facciata della mia sicurezza.
La prima volta che ci siamo visti è stato a scuola, quando è entrato in aula ed è venuto a sedersi proprio accanto a me, nel mio banco mentre la professoressa d’italiano, avvicinandosi il registro al naso e sollevando gli occhiali in modo da poter leggere meglio, cominciò l’appello:
«Abate»
«Presente».
«Conte».
«Presente».
«De Cicco».
«Presente».
«Federici».
«Assente». Rispose qualcuno.
«Guidi Casati».
«Presente» Rispose il mio compagno di banco.
«Sei… ma sei per caso il figlio di quel Guidi Casati?». Aggiunse la professoressa, quasi eccitata e in modo non troppo consono al ruolo che ricopriva.
Mentre tutta la classe si girava per cercare l’intruso che aveva suscitato tanto interesse nell’insegnante, il nuovo arrivato avvampò e con un cenno del capo rispose di sì. Poi, con sguardo eloquente sembrò implorarla di lasciar cadere la cosa.
La professoressa capì, si fece aria con il registro, si schiarì la voce e proseguì:
«Invidia».
«Presente».
«Lorusso».
«Presente»…
«Ma che le ha preso? Per caso ti conosce?» Gli chiesi a bassa voce. Lui rispose di no, ma aggiunse che il suo cognome era molto conosciuto in città e a volte capitava che a qualcuno facesse quell’effetto.
«E dove sei stato tutto questo tempo?» Chiesi.
«In un’altra scuola, poi ho cambiato ancora e non è la prima volta». Rispose.
«Perché cambi spesso scuola?»
«Una volta perché non mi piaceva l’indirizzo di studi e questa perché mi sono trasferito».
«Caspita, devi essere proprio un tipo complicato».
«Silenzio laggiù». Gridò la professoressa.
Abbassammo la testa sul banco e ci mettemmo a ridere, poi presi la penna e scrissi su una pagina del mio diario:
“Comunque piacere, io mi chiamo Asia”.
“Federico”. Scrisse sullo stesso foglio, e aggiunse una faccina colorata.
Nell’intervallo uscimmo dall’aula e parlando avemmo modo di conoscerci meglio. Io gli dissi che abitavo in un piccolo paesino e mi dovevo alzare ogni mattina alle sei per prendere la corriera delle sette, che facevo sport e due pomeriggi la settimana li dedicavo al volontariato. E aggiunsi, buttandolo lì, che mi faceva piacere averlo come compagno di banco.
A sua volta mi raccontò che aveva cambiato scuola, anche se questo era l’ultimo anno, perché i suoi genitori si erano separati e lui aveva preferito tornare a vivere con suo padre, in città.
Era molto piacevole conversare con lui, che parlava poco e ascoltava molto.
Finita la ricreazione, andai in bagno per passarmi un velo di mascara sulle ciglia e un po’ di rossetto sulle labbra e tornai in classe, ma con mia grande sorpresa lo trovai attorniato da tutte le compagne. Compresa quell’odiosa e invadente di Manuela, che già dal primo anno delle superiori veniva a scuola abbigliata, truccata e pettinata come se dovesse andare a una festa di gala.
«Stai facendo strage di cuori». Gli dissi appena si venne a sedere nel banco.
Federico ridacchiò, scosse la testa ma non mi rivelò il motivo di tutta quell’attenzione che aveva suscitato nelle ragazze. Ma comunque non ebbi bisogno di attendere molto per scoprire la verità: le voci in classe e nel corridoio si erano già sparse rapidamente e tutti ne stavano parlando. E rimasi di stucco quando una compagna, dalla finestra mi indicò la lussuosa macchina con cui era venuto a scuola e aggiunse chi era.
Federico era il figlio unico del conte Monaldo Guidi Casati, nobile e noto imprenditore con vaste proprietà e un patrimonio stimato intorno a qualche miliardo di euro.
Per nulla al mondo avrei considerato il mio nuovo compagno di banco, con quel suo aspetto timido e gli occhi buoni, un ragazzo snob e ricco sfondato, e ci rimasi male.
Il giorno dopo, quando suonò la campanella e tutti entrammo in classe, mi andai a sedere al mio posto e mi chiusi in un impenetrabile silenzioso.
«Ma che hai? Sei forse arrabbiata con me?» Chiese Federico.
«Perché non me lo hai detto?»
«Detto cosa? Cosa avrei dovuto dirti?»
«Che sei il figlio di quel tizio lì e sei ricco da fare schifo». Gli risposi. E glielo dissi in tono così brusco che io stessa mi stupii.
Lui deglutì e rispose che non pensava fosse una cosa così importante.
«Sì, è vero, mio padre è ricco, ma in fondo io che c’entro? Lo so, sono un previlegiato, ma cerco di comportarmi come tutti gli altri e non credo di darmi delle arie perché provengo da una famiglia ricca e di nobili origini». Rispose.
«E venire a scuola con tutta quella roba firmata addosso e quella macchina, non ti sembra sia come pavoneggiarsi e darsi delle arie?»
«La macchina me l’ha regalata mio padre. Non voleva che andassi in motorino e appena ho preso la patente me l’ha regalata. Per quanto riguarda il vestiario non so che dirti. Da sempre la mia famiglia si serve in quei negozi, e io faccio altrettanto».
Nelle altre ragazze aveva scatenato competizione e voglia di conquista, mentre in me, e non so perché, aveva provocato una voragine di smarrimento e confusione.
A scuola cercai di comportarmi normalmente, di non fare caso alle mie compagne che non perdevano l’occasione per mettersi in mostra, e spesso andavano anche oltre.
A letto cercai di dare un senso al mio stato d’animo, al mio malumore e mi chiesi perché mi disturbasse tanto che Federico fosse ricco, ma non riuscii a darmi una risposta.
Era molto indietro con il programma e io gli detti una mano durante le lezioni e lui sembrò apprezzare il mio gesto, tanto che una domenica mattina, mentre ero in camera mia, mi chiamò al cellulare.
«Ciao. Sono di ritorno da un torneo di tennis e sto andando a casa, e credo di essere proprio nelle vicinanze di casa tua. Se non disturbo mi farebbe piacere passare a salutarti».
Avvampai. Avrei voluto dirgli che non ero in casa, che ero in palestra, a messa, a spasso, non so dove, ma poi pensai che sarebbe stata una ridicola scortesia e risposi:
«Ma certo. Vieni pure, scendo ad aprirti il cancello».
Quando aprii la porta d’ingresso, la sua macchina si stava fermando davanti a casa e le quattro frecce lampeggiavano.
Mia madre che stava parlando in giardino con una vicina, si avvicinò e la sentii chiedere:
«Scusa, hai bisogno di qualcosa? Ti sei per caso perso?»
«È tutto apposto mamma, tranquilla. È il mio compagno di banco. Passava di qui e si è fermato a salutarmi». M’intromisi.
Mia madre e la vicina ammutolirono e stupite rimasero a guardarmi mentre aprivo il cancello e facevo cenno a Federico di entrare con la macchina.
«Bello qui. Vivi proprio immersa nel verde, circondata dalla natura». Mi disse scendendo dalla macchina e dandomi due baci sulle guance. Arrossii, e come una stupida gli risposi che casa mia non poteva certo essere il castello in cui abitava lui. Federico rise e rispose che non abitava in un castello, ma viveva da solo in un appartamento che suo padre gli aveva messo a disposizione.
Ero confusa, e di nuovo ebbi la certezza che tutto ciò che stavo pensando e dicendo si stesse trasformando in ridicole scemenze.
Preferendo, per ovvie ragioni, non farlo entrare in casa e nemmeno fermarci a parlare in giardino, gli chiesi se gli andava di fare due passi a piedi.
Quando tornammo la situazione era cambiata. La vicina di casa non c’era più ma mia madre, che ci stava aspettando sulla porta, mi sorprese con queste parole:
«Asia, perché non chiedi al tuo amico se vuole fermarsi a pranzo da noi?»
«Ma mamma, Federico deve tornare a casa, ha degli impegni». Le risposi, mentre le mie guance stavano avvampando per la rabbia e la vergogna.
«Ma che ci vuole? La lasagna non aspetta altro che di essere tirata fuori dal forno, tuo padre è in casa, noi siamo qui e… Allora, tu che ne dici?». Chiese, rivolgendosi direttamente al mio compagno di classe.
«Dico di sì. Se non disturbo naturalmente». Rispose.
Entrati in casa, dissi a Federico di accomodarsi e scusarmi e seguii mia madre in cucina.
«Ma come ti è venuto in mente? Perché hai insistito tanto affinché rimanesse a pranzo?»
Ma lei rispose con un’altra domanda:
«Perché non me lo hai detto che sei la compagna di banco di Guidi Casati?»
«E tu come fai a sapere come si chiama?» Chiesi.
«Stupida. Mentre eravate fuori, ho dato un’occhiata alla macchina e, trovato nel cruscotto il libretto di circolazione… se due più due fa sempre quattro, ho capito da sola chi è».
«E cos’ha di tanto speciale per te?»
«Per me ormai niente. Ma per te dovrebbe essere importante, e molto anche».
«Mamma, siamo solo compagni di scuola, di classe, di banco. Niente di più. E non c’è nulla di ciò che stai fantasticando».
«Stai scherzando? Ma dove vivi? Svegliati». E dicendo così si tolse il grembiule, tirò fuori dal forno la lasagna e la portò in tavola, già apparecchiata da un pezzo anche per Federico.
«Ecco qui. Serviti pure e se ne vuoi ancora non fare complimenti. Se poi ne vuoi portare un po’ a casa per questa sera, basta che lo dici e te la metto in un contenitore a chiusura ermetica, così puoi stare tranquillo che non sporchi la macchina, se ti dovesse cadere».
«Mamma, per favore…» Le sussurrai e, seguendola di nuovo in cucina, la pregai di smetterla di mettermi a disagio e farmi sentire ridicola. Ma lei fece spalluccia e intenta a scegliere i pezzi migliori da mettere nel piatto di Federico, rispose:
«Zitta e aiutami a portare il secondo e i contorni di là. Questo, non sbagliarti, è il piatto per il tuo amico». Rispose stizzita.
Andato via Federico, passai il resto della domenica chiusa in camera mia, dandomi della stupida e irritandomi per le parole di mia madre che per tutto il pranzo non aveva fatto altro che ripetere Casati di qua Casati di là. E provavo anche vergogna per la grossolanità di mio padre che a tavola sembrava non essersi nemmeno accorto della presenza dell’ospite.
Avevo conosciuto talmente tanti ragazzi arroganti e maleducati che non riuscivo a credere che Federico fosse diverso dagli altri.
Carino era carino, ma a me non bastava. Avevo avuto compagni di scuola e amici che mi avevano fatto la corte, ma non mi era mai bastato. Chiedevo di più, volevo più dolcezza, più sentimento, ma loro non capivano e allora mi chiudevo a riccio.
Per questo, con un po’ di batticuore, quando per la prima volta mi chiese se volevo uscire con lui, cercai di trovargli almeno un piccolo difetto, ma non riuscii a trovarne nemmeno uno. E lo confidai anche alla mia amica Dolores.
Lei confessò che Federico lo conosceva, perché era stato il fidanzato di una sua cugina. Una storia breve ma che aveva lasciato il segno.
A chi avesse lasciato il segno però non lo disse, ma comunque se quella storia era finita in fretta, voleva dire che per lui non era stata importante.
Ne fui felice e così, quando Federico mi tornò a chiedere se il sabato sera volevo uscire con lui, pensai subito di rispondergli di no, ma dissi di sì e per la prima volta salii sulla sua bella macchina sportiva.
Quando lo vidi arrivare e fermarsi davanti al cancello di casa mia, provai un’emozione fortissima. Era così bello, il sorriso incantevole e poi quella splendida rosa rossa che mi porgeva. Avrei voluto baciarlo subito.
Stavo vivendo una favola e la stavo vivendo con lui, ed ero felice. Non avevo mai avuto un ragazzo che mi facesse sentire così amata, che mi facesse sentire speciale. Ma non volevo forzare la mano, desideravo solo godermi l’inizio della mia prima vera storia importante. Così, come l’avevo sempre sognata, si stava avverando la mia favola ed era come quella di Cenerentola.
Gli ultimi mesi di scuola trascorsero in fretta e furono perfetti. Più conoscevo Federico, più mi piaceva e più m’innamoravo di lui, della sua gentilezza, della sua educazione. Quando mi riaccompagnava a casa, non se ne andava se prima non avevo richiuso dietro di me la porta. Mi faceva sempre dei bei regali. Mi portò a farmi conoscere suo padre e anche la madre, un giorno che venne in città a trovarlo.
Era davvero un ragazzo perfetto, mi rammaricavo solo di non essere stata la sua prima ragazza. E sentivo che Federico, anche se non mi aveva mai forzato, desiderava andare oltre quei timidi baci che ci davamo. Mi dava solo fastidio che tutto quello che voleva fare con me, prima lo aveva già fatto con un’altra ragazza.
Finalmente, finito con esito positivo la scuola, Federico tornò a propormi di andare con lui in Grecia. Sarebbe stata la nostra prima vacanza insieme e da soli, e io accettai entusiasta.
Ma quando lo dissi a Dolores, e mi chiese se ci avessi pensato bene, se stavo facendo la cosa giusta, se veramente volevo partire con Federico e stare da sola con lui, risposi:
«Se parto? Certo che parto. Ci ho messo un mese per convincere mio padre a lasciarmi andare via due settimane con lui, e adesso nessuno al mondo potrà fermarmi o farmi cambiare idea».



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