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Ritorno alla vita/1 «Nel dolore siamo tutti uguali»

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

31
AGO
2012

 

Pensava che la vita le avesse rivolto le spalle, ma proprio nella sofferenza è riuscita a conquistare la forza per affrontare la malattia, diventando mamma e presidente di un’associazione di volontariato. Intervista a Francesca Colucci, dell’Assistenza Martinese Oncologica Domiciliare
 
È facile stancarsi della quotidianità, della routine: del lavoro che tentenna, della vacanza sfumata, del vestito che non ci entra più o dei primi segni del tempo. Facile, perché il mondo gira così, corre veloce verso mete impossibili, progetti ambiziosi e desideri nascosti: una corsa continua che diventa una sfida contro le proprie paure. Poi in un attimo si ferma tutto e quel precipitarsi alla conquista di un posto nel mondo, diventa un’inarrestabile lotta per ritrovare la normalità perduta. Paradossale, ma reale, spaventoso, un’impasse che cede il posto alla speranza e a innumerevoli riflessioni che ci conducono prepotentemente alla scoperta di ciò che conta davvero nella nostra esistenza. Francesca Colucci, presidente dell’AMOD, Assistenza Martinese Oncologica Domiciliare, è più che decisa quando ribadisce che al mondo, conta solo l’amore e dalle sue parole ne trapela parecchio per la sua associazione e per la sua famiglia: baluardo solidissimo, in grado di trasmetterle tutta la forza necessaria per affrontare momenti difficili e delicati. Una forza che le ha dato il coraggio e la tenacia per non abbattersi, anche quando la vita sembrava girarle le spalle; una forza che si è tramutata nella voglia di aiutare chi combatte tra la vita e la morte, consapevole dello strappo profondo che aprirà nelle vite dei suoi cari e immensamente bisognoso degli ultimi sospiri d’amore.
 
Sig.ra Colucci, partiamo ripercorrendo a grandi linee le tappe più importanti della sua vita e della sua formazione professionale.
«Io mi sono diplomata al liceo classico e ho studiato presso la facoltà di Lettere e Filosofia a Lecce, ma non ho concluso gli studi perché all’epoca, la condizione economica della mia famiglia non era tale da permettermi di rimanere sul territorio, perciò a un certo punto, stanca di fare da pendolare, ho deciso di lasciare l'università e cercare qualche lavoro per cominciare a guadagnare qualcosa. Ho lavorato presso alcune finanziarie private, fino a quando ho vinto finalmente un concorso pubblico presso il Ministero della difesa come dipendente civile con destinazione a Padova, perciò armi e bagagli sono partita nel 1988 per Padova, dove sono rimasta per tredici anni lavorando presso il Comando Regione militare Nord Est. Purtroppo nel corso di questo mio percorso di vita, mi è anche capitato di ammalarmi: all'età di trentatre anni ho avuto una forma tumorale che mi ha fatto pensare e riflettere su tantissime cose. Ho subito diverse operazioni, ho fatto tutte le terapie del caso e grazie al cielo ne sono uscita, ma dopo questo episodio ho pensato bene di avvicinarmi alla mia famiglia, anche se nello stesso periodo mia mamma, ammalata come me, si stava aggravando e dopo sei mesi è venuta a mancare. Ho fatto un percorso di malattia nella fase terminale di mia madre pensando di dover fare la stessa fine, perché vivevo il suo stesso dolore».  
 
Ha vissuto una situazione molto difficile, chi le ha dato la forza per non smettere mai di lottare?
«Sono una persona molto forte e tenace che se decide qualcosa la porta a termine e grazie a questa forza di volontà sono riuscita ad avere un altro figlio, anche dopo la malattia: una bambina che adesso ha quasi diciassette anni e che assieme all’altro mio figlio che ora ha trent’anni, mi ha dato la forza per reagire in maniera differente, perché quando sei così giovane hai sempre delle aspettative, dei progetti e dei sogni, perciò quando ti capita una cosa del genere è come se all’improvviso ti venisse tolto tutto e sei preso solo da una forte instabilità, perché senti che la vita non ti appartiene più. Ci tengo molto a porre l’attenzione sulla fase iniziale della malattia, quando in preda al panico vuoi solo sapere quanto resta da vivere e i medici non sanno mai rispondere, perché vogliono avere un percorso di malattia che vada almeno dai cinque anni per fare previsioni».
 
La voglia di aiutare altri malati in difficoltà e di fondare l’Amod è partita anche dall’esperienza della sua malattia? «Sì, perché dopo aver fatto domanda di trasferimento a Martina, sono andata a vivere in campagna, perciò tra la casa e i figli ho pensato di chiedere il prepensionamento e così sono diventata una baby pensionata. È passato un po’ di tempo, ma volevo fare qualcosa per mettermi alla prova, perché quando parliamo di amore e affetto è facile volere bene a chi ti è intorno, ma siamo capaci di amare e fare del bene a delle persone che non conosciamo e che si trovano in difficoltà? La mia esperienza mi ha segnato proprio per questo, sono stata in ospedale, ho girato tanti reparti e ho visto la sofferenza di persone che erano sole e con lo sguardo ti chiamavano in cerca di aiuto, così ho riflettuto un attimo e con l’aiuto di mia sorella abbiamo deciso di entrate a far parte di un associazione di assistenza domiciliare gratuita agli ammalati terminali di tumore e siamo stati diversi anni in questa associazione, anche se poi a causa di problemi gestionali abbiamo pensato di costituirci in forma autonoma sul territorio decidendo di fondare l’AMOD, Assistenza Martinese Oncologica Domiciliare che va avanti dal 2010».
 
Nello specifico, di cosa si occupa la vostra associazione?
«La nostra associazione si occupa prima di tutto di fund raising perché ci autofinanziamo e poi, naturalmente, svolgiamo assistenza alle famiglie e agli ammalati tramite persone preparate che in alcuni casi hanno anche svolto dei corsi specifici. Il nostro operato si base principalmente sulla collaborazione che c’è con la Fondazione Luca Torricella che presta assistenza sia sul territorio di Martina che su quello di Crispiano, in quanto la Fondazione è stata accreditata dall’Asl di Taranto tramite convenzione, il che significa che viene stabilito un budget per ogni ammalato assistito: è chiaro che il costo di un malato terminale che sta in ospedale è molto più alto, ma allo stesso tempo non dobbiamo nemmeno sottovalutare le spese che comporta l’ospedalizzazione di un domicilio: se il malato si trova a casa, è necessario garantire tutto ciò di cui ha bisogno e siccome il budget messo a disposizione dall’Asl spesso non basta, ecco che interveniamo noi prestando un contributo notevole, infatti, nel 2011 abbiamo assistito circa settanta pazienti sul territorio».
 
Oltre a questo lodevole servizio che offrite ai malati oncologici terminali, organizzate anche parecchie manifestazioni, volte al sostentamento economico dell’associazione.
«Sì, svolgiamo molte manifestazioni, tornei di burraco, concerti, spettacoli, in modo tale da destinare tutto il ricavato ai fini istituzionali della nostra associazione, però tra le attività che ci distinguono c’è quella che riguarda la realizzazione di prodotti artigianali fatti interamente a mano dai nostri volontari. La nostra sede è composta di un ufficio di accoglienza dove la gente si reca per chiedere informazioni e assistenza e poi abbiamo il cosiddetto ‘angolo della speranza’, un negozietto solidale dove promoviamo tutti i nostri manufatti e ce ne sono di ogni tipo: pergamene, portachiavi, borse, bomboniere per tutte le circostanze, anche perché ritengo che in questo modo si possa unire l’utile al dilettevole e avere qualcosa di bello e funzionale il cui ricavato possa aiutarci a dare una speranza a chi soffre».
 
Come risponde la gente davanti al vostro operato?
«La gente risponde sempre, anzi, i contributi maggiori li riceviamo proprio dai privati che ci manifestano il loro sostegno seguendoci per le varie manifestazioni, anche se mi piacerebbe ricevere delle risposte più forti dalle istituzioni. Cambiano i sindaci, le giunte, gli assessori, ma sono sempre porte chiuse e comunque non ci sono mai risposte concrete, tra l’altro è proprio per questo che ci siamo costituiti in forma autonoma e ci addossiamo tutte le spese legate al nostro ufficio e quindi: affitto, utenze, commercialista, ma noi siamo volontari, perciò il nostro operato è a titolo gratuito e spesso ci rimettiamo di tasca nostra. A volte, molti degli esponenti politici sono ben consapevoli di quello che facciamo, perché capita di assistere dei loro parenti e familiari, ma nonostante questo, quando siamo in piazza a Natale o a Pasqua, girano al largo senza nemmeno dare una piccola offerta e questo è davvero vergognoso, perché noi offriamo un servizio che appartiene a tutta la cittadinanza e purtroppo può coinvolgere chiunque. Desidererei tanto che ci fosse più sensibilizzazione su questo aspetto: è vero che viviamo tempi difficili, sempre impegnati e divisi tra famiglia, impegni e lavoro, ma a volte dobbiamo fermarci e fare in modo che non ci si dimentichi della morte, affinché non diventi una cosa troppo burocratica e sappiamo sempre riconoscere l’importanza dell’assistenza domiciliare e spirituale».
 
È bene sottolineare che in casi come questi non si assiste solo l’ammalato, ma anche le famiglie che condividono quotidianamente il loro dolore.
«Sì, noi rivolgiamo in primis, un’assistenza al malato. È ovvio che quando si parla di malati terminali sappiamo tutti che una possibile guarigione può dipendere solo dall’alto, ma noi possiamo fare di tutto per ridare una dignità al malato, alleviando le sue sofferenze attraverso le cure palliative. Il termine palliativo deriva dal latino ‘pallium’ che significa mantello, come quello che San Martino usò per coprire un mendicante: a tutti noi spaventa la morte, ma ciò che più ci terrorizza è la sofferenza, infatti, molti malati ci dicono che preferirebbero morire subito, anziché soffrire ancora bloccati in un letto. Un’altro valido sostegno è l’assistenza alle famiglie che quando vengono colpite da notizie del genere subiscono un disorientamento devastante, perché in alcuni casi la malattia si manifesta attraverso sintomi che perlomeno danno il tempo ai familiari di capire a cosa si andrà incontro, in altri, invece, questi mali sono silenti e si presentano come delle tempeste che stravolgono tutti, ancora di più dei figli che sono ancora minorenni. Ci sono capitati tanti casi di mamme e papà molto giovani che non sapevano nemmeno come parlarne ai loro figli, è a quel punto che interviene uno psicologo, sempre lì dove ne venga fatta richiesta».
 
È mai capitato che si siano verificati fenomeni di resistenza nei confronti del vostro intervento?
«Sì, perché quando ci si rivolge a queste associazioni si è consapevoli di essere arrivati al punto in cui non c’è più niente da fare, perciò spesso sono le famiglie a essere titubanti, adottando una sorta di autodifesa come se non si volesse accettare la realtà. Altre volte, invece, le famiglie sono ben coscienti dell’aiuto che possono avere e ci chiedono di non dire nulla all’ammalato oppure di trovare il modo giusto per parlare dell’intervento dell’associazione. In ogni caso sono sempre i familiari a decidere, così come accade per l’accompagnamento spirituale che dura fino all’ultimo sospiro: se la famiglia decide di volere anche questa forma di assistenza, noi mettiamo a disposizione alcuni dei nostri volontari che svolgono proprio la funzione di ‘consolatori spirituali’ e hanno seguito appositamente dei corsi, riconosciuti dal Vescovo di Taranto tramite attestati. La cosa più importante è più bella dell’Associazione è che noi assistiamo tutti, indipendentemente dalle condizioni sociali, dalla religione e da tutto ciò che possa creare delle differenze, perché nella malattia siamo tutti uguali: lo diceva anche Totò che nelle situazioni di dolore c’è sempre la livella».
 
A proposito delle consolatrici spirituali, c’è davvero qualcosa che si può dire a una persona che sta vivendo gli ultimi istanti di vita?
«Noi non diciamo nulla, ma ascoltiamo: è l’ammalato che deve parlare, deve aprirsi e se lui sta zitto, anche noi stiamo in silenzio. Non bisogna mai dire sciocchezze, mai lamentarsi e soprattutto mai dire bugie, perché l’ammalato è cosciente di quello che vive e la forza per parlare con qualcuno deve partire sempre da lui. Si parla delle cose normali, ma mai della malattia, ed è necessario andare sempre in bella presenza, senza facce tristi, senza piangere, perché il malato terminale ha bisogno di vedere delle situazioni piacevoli attorno a lui. Ci sono tanti casi in cui è proprio il malato a dare coraggio agli altri e sinceramente a quel punto penso che ci sia direttamente l’intervento di forze maggiori, perché non si tratta di una cosa semplice».
 
C’è bisogno di tanto lavoro di squadra per mandare avanti l’associazione: riuscite sempre a organizzarvi, conciliando la vita privata con gli impegni?
«A volte mantenere un gruppo così nutrito non è molto facile, perché ognuno ha le proprie idee, però c’è sempre un forte spirito da parte di tutti che fa superare le divergenze, ci si ferma per un attimo, ci si chiarisce e si torna ad andare avanti. Durante tutto il mio percorso non avrei potuto fare nulla senza il sostegno di tutti i volontari che fanno parte dell’associazione, che mi hanno seguito e hanno sempre creduto in me: se non fossi sicura della loro fiducia, non potrei continuare il mio impegno. Sono persone eccezionali, che a volte hanno trascurato anche la loro famiglia sempre caratterizzati dalla volontà di aiutare il prossimo, ma soprattutto sono persone dotate di grande umiltà: una qualità fondamentale, infatti, in alcune associazioni si creano delle forme di presenzialismo, ma in questa siamo tutti uguali, ognuno sceglie di cosa si vuole occupare e decide che tipo di disponibilità dare, purché mantengano l’impegno dato. È importante che chi si avvicini a queste associazioni, non lo faccia per riempire degli spazi vuoti, ma abbia ben chiara le destinazione del tempo, non si timbra il cartellino, ma è fondamentale avere rispetto per l’ammalato e serietà nei confronti delle altre persone che lavorano per l’Amod. Ovviamente ci veniamo incontro, perché anche i nostri volontari possono vivere delle situazioni difficili, c’è chi ritorna e chi non torna più, ma non dobbiamo perdere la forza per andare avanti, attraverso un grande lavoro di collaborazione si riesce a fare tutto, certo non è sempre facile, però ci vuole volontà: chi vuole fare veramente qualcosa trova la strada, gli altri, una scusa».
 
Purtroppo il tumore rappresenta una malattia che nonostante tutti gli studi condotti non stenta a diffondersi, compromettendo la stabilità e la vita di numerose persone sempre più stanche di sentire, anche solo nominare, questo argomento: voi, invece, facendo parte di questa associazione siete costantemente a contatto con queste situazioni.
«Sì, è vero, anche se noi non parliamo dalla mattina alla sera della malattia e quando cerchiamo di parlare alla gente del nostro operato, facciamo in modo di trovare sempre la forma giusta per descriverlo. Che poi la gente non voglia sentire parlarne perché ha paura di queste realtà è del tutto comprensibile, ma quando la sera andiamo a letto e pensiamo a tutto quello che abbiamo fatto, se non ci sentiamo soddisfatti, allora secondo me, dovremmo porci un punto di domanda. Si parla tanto del mistero della vita e io penso che sia quello di amare e aiutare gli altri, non si tratta di fede, perché quella è un’altra cosa, si crede a quello che si vuole e si va avanti lo stesso, ma è l’amore che conta, è quell’impulso naturale che muove le cose: quando si fa un’offerta si compie un gesto meccanico, ma quei soldi vengono dal cuore, altrimenti non si fa nulla».
 


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