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CHI HA PAURA DEL DEFAULT?

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

12
OTT
2012

 

C’è una parola che, moderna spada di Damocle, da molti mesi è sospesa minacciosa su alcuni paesi dell’Unione Europea e su decine di milioni di euro cittadini: default!
Per i pochissimi che non avessero un’idea precisa del suo significato possiamo dire che si tratta, semplicemente, del termine anglofono usato per indicare il “fallimento”, economico o finanziario, di una nazione.
Da quando se ne parla ho due domande che, in modo ricorrente, mi tornano come un tarlo: cosa fa paura del default e, soprattutto, a chi? Proverò a spiegarvi le risposte che mi sono date raccontandovi la storia di un Paese che questa drammatica realtà l’ha vissuta di recente.
“No tenemos dinero, no pagamos debitos!“ Era il dicembre del 2001 e, con queste lapidarie parole, il ministro delle Finanze argentine del tempo, Roberto Lavagna, compiva l’atto finale di una tragedia nazionale iniziata tre anni prima. Al contempo tracciava la strategia di uscita dalla crisi finanziaria che attanagliava il grande paese latino-americano stabilendo, unilateralmente, che i miliardi di obbligazioni collocati in giro per il mondo dovevano diventare carta straccia per salvare il futuro dell’Argentina e dei suoi concittadini. Il Paese guidato al tempo da Eduardo Duhalde, aveva semplicemente notificato il fallimento finanziario della nazione. Dalla data del default, e in appena 11 anni, il paese latino-americano ha conosciuto una crescita tumultuosa che ne ha fatto non solo l’economia più florida del continente ma anche il secondo Paese con il tasso di crescita annua più elevato al mondo, superato solo dalla Cina. I fattori che, da quella decisione oggettivamente difficile, hanno giocato un ruolo fondamentale sono stati l’aumento della domanda di commodities (termine che non ha un corrispondente in italiano e indica l’insieme di beni primari soggetti sui mercati mondiali alla legge della domanda e dell’offerta) a livello mondiale, una valuta debole e il processo di terziarizzazione dell’economia che hanno permesso alle esportazioni di lievitare. Le politiche di stabilizzazione furono proseguite dal Presidente Néstor Kirchner, e continuano ancora oggi sotto la presidenza di sua moglie, Cristina Kirchner, che gli è succeduta. Quali indicazioni, dunque, ci vengono dall’esperienza Argentina utili anche per la crisi europea? Innanzi tutto che il settore economico che cresce in maniera più sana è quello delle piccole e medie imprese, a patto che ci sia un sistema paese virtuoso a cui fare capo. Che è demenziale continuare a parlare di reindustrializzazione, ma bisogna puntare soprattutto sullo sviluppo della ricerca, sul potenziamento del capitale umano e sull’esportazione del know how. Infine che non bisogna avere così tanta paura del default perché gli stati non sono come le imprese e, anche se fanno default, possono contare sul peso della propria autorità, intesa come autorità pubblica che può rinascere facendo leva sulla forza di volontà e sui valori intellettuali e morali del Popolo. Forse allora per evitare il pericolo di default servirebbe una classe dirigente in cui potersi riconoscere ed in cui poter credere. E questo, almeno per l’Italia, è scoglio quanto mai insormontabile.
Mi congedo con una dichiarazione rilasciata poco tempo fa dalla Presidente argentina Cristina Kirchner: “Preferisco avere un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il PIL viaggia ad un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti e il mio popolo è molto, molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più”.
Come per tutte le vicende umane è solo una questione di scelte. Una bella lezione per tutti i Professori (o presunti tali) che imperversano in Italia ed in Europa.


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