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Renato Curcio/Mal di lavoro

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

25
GEN
2013

 

Il noto sociologo, ex terrorista delle Brigate Rosse, ha presentato il suo nuovo libro in cui affronta il tema della sofferenza in ambito lavorativo. Si parla di depressione, di oppressione e naturalmente anche di Ilva e Teleperformance
 
Il male del secolo iniziato solo tredici anni fa è già stato stabilito: è la depressione. In realtà si tratta di qualcosa che era già nell’aria, in maniera piuttosto diffusa, alla fine del Novecento. Ma l’inizio del nuovo millennio, piuttosto che portare una ventata di ottimismo, ha piantato definitivamente le radici di questo particolare stato d’animo che porta l’uomo a vivere in un costante senso di inadeguatezza e di insoddisfazione.
Colpa degli attuali ritmi di vita, sempre frenetici, che ci portano a sentirci in continua tensione. Colpa anche del nuovo modo di relazionarci con gli altri, un modo tutto tecnologico e virtuale, che ci mette in contatto con milioni di persone in tutto il mondo, ma non fa che dimostrare la nostra assoluta solitudine. 
La depressione, ciò che ci fa sentire come se non stessimo arrivando da nessuna parte, quel male oscuro che attanaglia le viscere e ci rende incapaci di affrontare le difficoltà della vita, trova senz’altro terreno fertile in tempi come i nostri, dove la parola “crisi” diventa ridondante, è onnipresente. È vero, non c’è testo, brano o articolo dove non si legga questo termine e molti senz’altro l’avranno preso a noia. Ma ne siamo circondati, c’è una crisi in ogni settore della vita e purtroppo non si può fare a meno di parlarne quando si affronta un determinato argomento.
Come quello del lavoro, per esempio. Si parla di anziani che hanno lavorato per una vita, facendo un sacrificio dietro l’altro con la speranza di godersi una meritata pensione, che però paradossalmente non arriva mai, o si riduce al minimo – non all’indispensabile, sia chiaro: quella sarebbe già una grande conquista. Si parla di operai che non sanno se il giorno dopo saranno ancora al lavoro. Grandi fabbriche, aziende multinazionali che offrono migliaia di posti di lavoro, che però rischiano la chiusura. E se la rischiano loro, figurarsi cosa accade ai piccoli imprenditori. Si parla altresì di giovani precari, di generazione perduta, di persone magari laureate già da un paio d’anni che non sono abbastanza giovani da permettere all’azienda di ottenere agevolazioni, ma neanche abbastanza vecchie da aver maturato l’esperienza indispensabile per quella determinata figura professionale. Ogni giovane sotto i trent’anni manda in media un centinaio di curricula l’anno – alternando periodi in cui se ne inviano una trentina in un colpo solo e altri in cui si risponde ad annunci specifici, e in tal caso capita di inviarne un paio ogni due o tre settimane –, ma raramente ottiene risposta. 
Quello del lavoro e delle relative difficoltà nel trovarlo o nell’affrontarlo è un tema di cui si può parlare per ore e non sarà mai abbastanza. Ed è quello che è avvenuto pochi giorni fa al Tatà di Taranto dove si è tenuta la presentazione del libro “Mal di lavoro” di Renato Curcio, edito dalla sua stessa casa editrice, la coop. Sensibili alle foglie. 
Dopo i trascorsi che tutti conosciamo, Curcio si è dedicato molto spesso alla stesura di saggi, i quali vertono tutti sulla condizione lavorativa dell’uomo di oggi; e in quest’ultimo libro ha parlato appunto della malattia del secolo analizzata in ambito professionale.
Una ricerca del 2010 effettuata su un campione di trecento persone dai 25 ai 55 anni in maggioranza precari, ha dimostrato che almeno il 70% di essi soffriva di attacchi di ansia. Questo a causa di ambienti malsani, intendendo con questo termine tutto ciò che, direttamente o indirettamente, può mettere a disagio il lavoratore. Nel caso di Taranto, poi, il senso delle parole e quantomeno letterale. 
«Parlare di lavoro in questa città è complicato» ha spiegato il sociologo. «Ci sono contesti in cui operano diverse dinamiche e ognuna di queste contribuisce a far sì che si manifesti il mal di lavoro, e Taranto ne è l’esempio più lampante, in cui il male non riguarda solo la sfera interiore, quella mentale e delle emozioni, ma anche quella fisica».
Il caso della nostra città, infatti, è estremamente duro, in quanto le aziende principali, ossia l’Ilva e Teleperformance,  sono al contempo le due che offrono lavoro al maggior numero di persone, ma anche quelle nelle quali lavorare sta diventando impossibile (per condizioni ambientali al limite della sopravvivenza in un caso, e per costante precarietà nell’altro). 
La ricerca socioanalitica di Renato Curcio, intrapresa nel 2002 a Milano, ha dimostrato appunto che le grandi aziende non fanno eccezione per quanto concerne il mal di lavoro, ma al contrario sono quelle nelle quali il disagio si avverte in misura maggiore, poiché le strutture non fanno che sfruttare il lavoratore per massimizzare i profitti. Un’interpretazione del tutto errata di una delle fondamentali regole dell’economia, secondo cui affinché un’azienda sia competitiva è necessario ottenere il maggior profitto con il minimo dispendio di risorse. È vero, sì, che un’azienda funzionante deve chiudere l’anno in attivo, ma limitare al minimo il dispendio di risorse non significa spremere il lavoratore fino all’osso, senza dargli adeguati compensi economici per il lavoro svolto. 
L’organizzazione del lavoro, ha detto ancora Curcio, è cambiata e questa nuova modalità crea numerose difficoltà. «Si è passati infatti dalla produzione industriale a quella industrial-finanziaria, che modifica in maniera assoluta la collocazione del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, ha in tal caso un contratto che può essere reciso in qualsiasi momento e senza che accada alcunché, senza un motivo ben preciso, ma soltanto per esigenze aziendali. Una situazione del genere crea panico diffuso fra i dipendenti, i quali sentono di non poter fare progetti di alcun tipo e di rischiare di dover trovare un nuovo impiego, anche in età avanzata. Cosa quanto mai difficoltosa. Un tipico esempio» continua ancora Curcio «è il caso di Pomigliano d’Arco, ormai noto a tutti. Accade che il diritto al lavoro venga sospeso, così di punto in bianco, e questo ci rimanda nel pensiero critico ai grandi totalitarismi degli anni Trenta».
La sospensione del diritto accade in maniera quasi criminosa, ossia con il subentro del ricatto. «Il ricatto prevede che il dipendente lavori a determinate condizioni imposte dall’azienda, condizioni il più delle volte inaccettabili. E a quel punto accade che i lavoratori si dividano in due categorie: quelli che si sottomettono e pur di lavorare accettano le condizioni imposte, e quelli che invece non ci stanno».
In ognuno di questi casi, la decisione del lavoratore non è affatto facile. Nel primo caso, l’individuo ha un bisogno disperato di lavorare. Non è una condizione difficile da capire, al contrario ci si trova la stragrande maggioranza della gente. Si tratta di persone che hanno una famiglia da mantenere, dei figli da mandare a scuola, un mutuo o un affitto da pagare. Persone che non possono rinunciare a quel posto di lavoro e si piegano al ricatto perché quelle condizioni, seppur malsane, sono preferibili al restare senza impiego. Il secondo caso invece è quello di chi preferisce affrontare una nuova ricerca di lavoro, con tutte le difficoltà che quest’azione implica, piuttosto che lavorare a quelle condizioni. In ogni caso però essere soggetti al ricatto, essere nelle mani di questo potere significa essere privo di qualsiasi tutela. La nuova condizione del mondo del lavoro, pertanto, è «una solitudine radicale della società ancor prima che del lavoratore, in quanto è una situazione talmente generalizzata che la società non riesce a salvare l’operaio e lo abbandona a condizioni lavorative altamente degeneranti che portano a una totale sofferenza. Qualcuno potrà dire che anche nell’Ottocento si parlava di sofferenza sul lavoro: basti pensare per esempio ai bambini che lavoravano in miniera, la letteratura ne è piena. Ma qui si parla di un altro tipo di sofferenza; una sofferenza medicalizzata, alla quale vengono date terminologie appunto mediche: si è affetti da stress o da depressione o da attacchi di panico o da gravi stati d’ansia. Quando la malattia viene etichettata, al soggetto in causa non resta che far uso di farmaci».
A questo punto, tuttavia, Renato Curcio non parla più di depressione, ma di oppressione. «Il lavoratore è una persona che non ha solo l’aspetto lavorativo; ha una vita privata che non ha a che fare con la professione. Il problema, però, è che l’oppressione lavorativa cattura anche lo spazio privato. Il lavoratore singolarizzato guadagna poco pur lavorando molto e non ce la fa materialmente ad andare avanti. Ma deve farlo, e i costi sono elevati. Prendiamo ad esempio il caso di una madre sola, che deve lavorare per vivere e al contempo deve crescere suo figlio, dunque è soggetta a determinati orari, ha delle esigenze. Pertanto fa delle richieste alle quali l’azienda risponde con l’ennesimo ricatto. Mettiamo il caso che lavori in un grande centro commerciale, che faccia la cassiera all’Auchan. Supponiamo che l’azienda chieda alla donna di fare un turno spezzato, invece di lavorare quattro ore di fila, fa le prime due ore, poi una pausa di due e poi riprenda a lavorare per le successive due ore, che casualmente coincidono con l’uscita da scuola di suo figlio. La donna chiede di poter fare un turno completo, ma a quel punto l’azienda pur accontentando la richiesta, la priva di qualcos’altro, per esempio le abbassa lo stipendio. La donna accetta, perché non può fare diversamente. A quel punto però ha problemi finanziari e l’azienda le viene incontro con un nuovo ricatto. Le dà una carta di credito del valore di cinquemila euro da spendere unicamente in quel centro commerciale, al cui interno è possibile trovare di tutto, da articoli per la casa ai generi alimentari, dai giocattoli ai vestiti. In quel caso la donna non è più soltanto dipendente dell’azienda, ma anche della finanziaria sulla quale l’azienda poggia. Ed entra in un circolo vizioso, divenendo “proprietà” di due padroni».
Il mal di lavoro è un argomento fortemente dibattuto, tanto grave quanto più risulta diffuso. Si può parlare infatti di una sorta di mobbing generale, nel quale il lavoratore si trova immerso senza via di scampo, e che necessita di un’urgente soluzione.
 


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