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TUTTO SUCCESSE ALL´IMPROVVISO

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

27
OTT
2016
Mio marito si era sentito male in mattinata. Aveva accusato delle improvvise fitte alla schiena. Da prime lente, sporadiche, poi sempre più dolorose e prolungate, tanto che gli dissi di sdraiarsi bocconi sul letto e di lasciarsi frizionare con una pomata.
Eravamo tutti e due vedovi, lui aveva due figli, come me, un maschio e una femmina. Avevamo la nostra età e già vissuto le nostre esperienze, ma ci stimavamo e aiutavamo a vicenda, e soprattutto avevamo voglia di ritrovare un po’ di quella serenità perduta. 
Lo avevo conosciuto in una sala bingo, dove il sabato pomeriggio andavo con le mie amiche per trascorrere un paio d’ore di svago. Ci mettevamo allo stesso tavolo, si giocava, si parlava e si scherzava. Qualche volta facevamo una passeggiata e poi mi accompagnava a casa. Si parlava poco e sempre di cose sospese nell’aria. Cosa avrebbero avuto da dirsi due vedovi?Poi una mattina sentii il campanello suonare e quando andai ad aprire me lo trovai dietro la porta.
« Posso entrare? » Mi chiese. Io gli feci strada e andammo a sederci in salotto. Sembrava imbarazzato, emozionato e si guardava intorno.
« A cosa devo l’onore? » Gli chiesi, più per stemperare la tensione che si stava creando, che per sapere il motivo di quella visita mattutina, che peraltro mi aspettavo.
« Posso avere un caffè? » Mi chiese, mentre sembrava non riuscisse a trovare la posizione giusta sulla poltrona. 
« Ma certo. » Gli risposi. «Aspettami qui, vado in cucina a fartelo e torno. »
Non mi aspettò in salotto, me lo trovai alle spalle mentre stavo armeggiando con la caffettiera. 
« Senti Adele. Io non sono mai stato di molte parole e poi dire certe cose proprio non mi riesce. Ma volevo dirti… Cioè, volevo chiederti, visto che oramai ci conosciamo da un po’ e siamo tutti e due soli. Io ho i figli sposatie tu altrettanto. E allora avevo pensato se magari anche tu ti sentissi sola, se sentissi anche tu il bisogno di avere una compagnia, qualcuno vicino... Io, insomma avrei pensato, cioè è da giorni che ci penso. Se tu sei d’accordo, noi potremmo, magari non subito, magari dopo che ci siamo conosciuti meglio… Beh, potremmo metterci insieme, e se sei d’accordo anche sposarci.»
Le sue parole non mi sorpresero. Lo avevo capito da tempo, dal suo modo di fare che cercava il momento e le parole giuste per dirmelo, ma restai zitta e continuai a guardare la caffettiera che intanto aveva cominciato a borbottare. Poi versai il caffè nella sua tazzina e stavo per chiedergli quanto zucchero, ma mi ricordai che lui lo prendeva amaro e allora gli porsi la tazzina.
« Vedi? Siamo sulla buona strada. Sai già che io il caffè lo preferisco amaro. » Mi disse.
Da quel giorno iniziammo a frequentarci. La domenica, dopo la messa, andavamo a fare una passeggiata in centro e poi pranzavamo a casa mia. Ne parlai anche a mia figlia, per prima. Le dissi che avevo conosciuto un uomo, un vedovoche aveva qualche anno più di me, che ci stavamo frequentando e che con lui stavo proprio bene.
« Brava mamma. » mi rispose. «Sono contenta per te. »
Poi lo dissi anche a mio figlio, ma lui non sembrò tanto entusiasta, però aggiunse che se la cosa faceva piacere a me, per lui andava bene. Anche Ennio mi disse che i suoi figli erano d’accordo, ma forse qualcosa lo stava nascondendo, ma erano cose tra padre e figli e talmente intime che non trovai opportuno approfondire. 
Sei mesi dopo cominciammo a preparare idocumenti per il matrimonio e siccome il suo appartamento era più grande del miodecidemmo di stabilircia casa sua.
Ci sposammo in chiesa e la cerimonia fu molto sobria, erano presenti solo i testimoni, i nostri figli e qualche altro parente. Poi andammo tutti al ristorante e nel tardo pomeriggio, prima di tornare a casa, ci recammo da soli al cimitero. Era una cosa che sentivamo di dover fare, come se con quel gesto avessimo voluto mettere al corrente anche di chi non c’era più.
Nei primi tempi mi sembrava di vivere una seconda giovinezza. Lui era molto premuroso, sempre pronto ad esaudire anche il mio più piccolo desiderio. Avevamoentrambi superato da un pezzo la sessantina e bastava poco, e ci accontentavamo della serenità che il nostro rapporto ci stava restituendo. 
Nora,mia figlia, mi chiamava spesso per sapere come stavo, come mi sentissi, ma soprattutto voleva sapere se la nostra relazione stava funzionando. 
« Benissimo. » rispondevo. «Va tutto bene. Stiamo bene assieme e siamo molto affiatati. »
C’era una cosa però che non le dicevo, e cioè che i figli di mio marito, soprattutto la femmina, Eleonora, non avevano mai approvato questa nuova unione di suo padre, né tantomeno il matrimonio. Venivano di rado a trovarci e se il padre non era in casa non si fermavano nemmeno un minuto. A volte non lo dicevo nemmenoa Ennio che erano venuti a casa, perché lui mi avrebbe rispostoche i suoi figli si ricordavano di lui solo quando avevano bisogno di soldi. E mi diceva che anche quando erano piccoli non erano mai andati d’accordo. Litigavano spesso e su tutto, e tutt’ora le cose non erano cambiate. 
Dunque, quella mattina Ennio accusò dei forti dolori alla schiena e io cominciai a frizionarlo. Sembrava che le cose si mettessero al meglio ma ad un tratto lo vidi trasformarsi. Si contorceva dal dolore, le guance si gonfiarono e il respiro si fece sempre più affannoso. Lo chiamavo ma lui non rispondeva. Ennio, Ennio gli gridavo, ma niente, sembrava stordito dal dolore. Mi spaventai e corsi sul balcone e chiamai aiuto. Si affacciarono delle vicine e le pregai di chiamare i soccorsi, l’ambulanza, e poi tornai da lui che intanto continuava a contorcersi. Era diventato cianoticoe sudava. Il 118 arrivò subito e i medici gli prestarono le prime cure. Gli fecero delle iniezioni, l’elettrocardiogramma e altre cose che ora non ricordo. Sembrava che si stesse riprendendo. Cominciò a calmarsi e a chiedere di me. Voleva che gli stessi vicino. Io gli presi la mano e lui me la strinse forte. Il medico intanto continuava a monitorarlo e poi decise peril trasferimento in ospedale. 
Gli infermieri andarono a prendere la barella e intanto io chiamai Eleonora, sua figlia, per dirle cosa era successo a suo padre e che lo stavano portando in ospedale, che avvisasse anche il fratello.Intanto Ennio non voleva lasciarmi la mano e allora i sanitari fecero un’eccezione ein ambulanza salii anch’io con lui. Giunti al pronto soccorso lo visitarono, poi mi fecero uscire e non seppi più niente. Alle mie ripetute domande mi dicevano che stavano eseguendo degli accertamenti specifici. Per cosa ancora non era dato sapere. Arrivarono anche i suoi figli, più seccati per il contrattempo che preoccupati. Almeno così lo intesi io. 
Verso le due del pomeriggio, dopo ore d’attesa trascorse nella più assoluta incertezza, si presentò un dottore in tenuta verde, con una cuffia in testa e ci disse che stavano predisponendo il paziente per l’intervento chirurgico. Si era verificato un problema all’aorta e dovevano operare con urgenza. L’intervento durò quattro ore e quando lo stesso medico tornò da noi e ci disse che avevano tentato in extremis di salvarlo, ma che purtroppo…
Dopo quelle parole, il primo ricordo che ho è di essermi ritrovata su una barella con un ago in un braccio che mi stava iniettando il liquidodi una flebo. Ero svenuta e mi avevano soccorsa. Quando chiesi che ore fossero, qualcuno mi rispose che erano passate da poco le sette di sera. Chiesi di mio marito, ma dai loro silenzi capii che stavano confermando quello che il chirurgo ci aveva già detto. Chiesi dei suoi figli, ma nessuno mi seppe dire niente di loro. Chiesi allora se potevo alzarmi per andare da mio marito, ma mi risposero che non mi potevo ancora alzare e che comunque la sala mortuaria era già stata chiusa e che pertanto solo il giorno dopo ci sarei potuta andare.
Stordita, forse da qualche farmaco e dalle flebo, per qualche tempo rimasiancora supina su quella lettiga a guardare la luce azzurrognola che il neonstava emanando. Ogni tanto entrava nella stanza un’infermiera, controllava la flebo e mi misurava la pressione e finalmente, verso le dieci di sera, mi dissero che potevo tornare a casa, ma cheavrei dovuto continuare a prendere i farmaci che mi stavano prescrivendo. Io ero arrivata in ospedale con l’ambulanza e allora si offrirono di riaccompagnarmi a casa. Mi chiesero se vivevo da sola e io risposi con mio marito, ma loro intendevano altro, e cioè che sarebbe stato opportuno che non trascorressi la notte da sola.
« Non ho nessuno. » Dissi loro. E d’altronde i miei figli risiedevano in altre città e non mi ero nemmeno ricordata di avvisarli. Si c’erano i figli di mio marito, ma a quell’ora non me la sentivo di disturbarli, Poverini anche loro, pensai, saranno straziati dal dolore.
L’ambulanza entrò nel cortile dello stabile che erano quasi le undici di notte e quando alzai lo sguardo vidi tutte le luci di casa mia accese: noi abitavamo al primo piano. Non ci feci molto caso. Senz’altro quando eravamo corsi in ospedale mi sarò dimenticata di spegnerle, pensai.
Quando aprii la porta trovai la casa sottosopra, come se fosse stata visitata dai ladri. In cucina cassetti aperti, posate sparse sul tavolo, tegami e padelle riverse per terra. Ero interdetta, non sapevo cosa pensare né cosa fare. E stavo cercando il mio cellulare quando dalla camera da letto spuntò la sagoma di Eleonora.
« È tornata. » La sentii dire a qualcuno che era nella stanza. Era suo fratello e assieme stavano mettendo sottosopra l’appartamento.
« Ma cosa pensate di trovare? » Chiesi loro con le lacrime agli occhi.
« Fatti nostri. Cose di nostro padre che ora appartengono a noi. Soldi, la sua collezione di francobolli e di monete antiche, ci devono essere anche quelle d’argento e d’oro, ma non riusciamo a trovarle. Ne sai niente tu? » Aggiunse il figlio, continuando a rovistare nei cassetti e negli armadi.
Ero stravolta, distrutta e non credevo a ciò che vedevo.
« Ma lo sapete che vostro padre è morto? » Chiesi con un certo cipiglio.
« Certo. Che domande fai? » Rispose Eleonora, continuando nella sua azione.
Non sapevo come comportarmi e scoppiai a piangere, non so se più per la perdita di Ennio o per il loro comportamento. Dopo un po’ guardai l’orologio, ma era tardi, e allora pensai che era inutile svegliare a quell’ora i miei figli, avrei provveduto ad avvertirli l’indomani.
« Sentite, sono stanca. Ho bisogno di rimanere da sola. »Dissi ad un certo punto, ma loro non mi ascoltarono. 
« Ve lo chiedo con gentilezza ragazzi, per favore, ho bisogno di restare sola, domattina potete tornare e cercare quello che volete. Ma tanto avete già visto che non c’è niente. »
« Sola? Da ora in poi sai quanto tempo starai da sola? » Mi rinfacciò Eleonora.
Finalmente se ne andarono e allora detti un’occhiata in giro, nei posti dove io e il loro padre tenevamo i pochi oggettini di valore: una collanina d’oro, un ferma cravatta con un piccolo brillante al centro, degli anelli e qualche braccialetto. Era sparito tutto, compreso il libretto degli assegni di mio marito, i soldi e anche il suo libretto di risparmio.
Non avevo voglia di stare a pensare a quelle cose. Mi guardai intorno e realizzai che veramente da quel momento sarei tornata ad essere di nuovo sola. Sola per la seconda volta. 
Come trascorsi la notte non saprei descriverlo. Da sveglia piangevo e se mi assopivo era peggio perché avevo degli incubi. Sentivo sirene, vedevo camici bianchi, sanitari che correvano da una parte all’altra e mio marito lì fermo, immobile tra loro.
Il mattino successivo, verso le sei, sentii suonare alla porta d’ingresso. Non potevano essere i figli di mio marito, anche perché avevano le chiavi e sarebbero entrati senza farsi annunciare. Era Emilia, la mia amica che abitava nello stesso stabile, sopra di me, vedova anche lei, che era venuta per rendersi conto di come avessi trascorso la notte e per farmi compagnia. Le raccontai un po’ tutto quello che era successo nella giornata precedente e di cosa avevo trovato al mio rientro, e lei mi confermò che verso le sei del pomeriggio, dunque appena avvenutoil decesso, i figlidi Ennio erano venuti a casa nostra. Lei era scesa per chiedere notizie del padre e quando gli dissero che era morto pensò che fossero venuti per prendere il necessario per vestirlo, ma poi, vedendo che restarono in casa sino a tardi, non seppe più cosa pensare.
Prendemmo il caffè assieme, mi aiutò a scegliere l’abito, camicia, cravatta e le scarpe per mio marito e mi accompagnò in ospedale, alla sala mortuaria. I figli non erano ancora arrivati, si presentarono verso mezzogiorno e le tensioni cominciarono subito. Mi trattarono come un’intrusa, un’estranea, non come la moglie del loro padre. Terminato quella giornata tornai a casa e loro erano lì, che stavano rovistando. Si comportarono come se io non ci fossi stata,e alla fine se ne andarono senza salutare e sbattendo la porta. 
I miei figli vennero per il funerale e Nora mi chiese se per un certo periodo volevo andare a stare con lei. Accettai l’invito ecosì dopo una settimanapartii con lei. Stetti a casa sua un mese e intanto i figli di mio marito si portarono via tutto ciò che ritenevano di valore, compresi i quadri e un servizio di posate d’argento.Al mio ritorno, esasperata, chiamai un fabbro e feci cambiare la serratura della porta d’ingresso.
Il primo del mese successivo andai a ritirare la pensione, o meglio la reversibilità che mi spettava e scoprii che era una miseria, ma quello che mifece stare male è stato sentirmi dire da Eleonora:
« E cosa ti aspettavi? Anzi, devi dire grazie perchéquesti soldi li stai rubando. »
Ci rimasi sinceramente male e in seguito seppi che erano andati anche da un avvocato per chiedere se io, come seconda moglie, avessi diritto a rimanere in quella casa, e alla mia parte di non so quale eredità. 
Risi amaramente quando mi dissero che dovevo presentarmi con loro dal notaio e poi in banca per la suddivisione delle somme depositate. Una vita di risparmi che non erano bastati nemmeno per le spese del funerale e per l’acquisto delposto al cimitero.
Mia figlia aveva ragione e mi fece ragionare. Era inutile che rimanessiin quella casa da sola,e alla mia età, e allora accettai il suo invito e mi trasferii da lei, nel Lazio.
Ma prima di partire andaial cimitero per dare un ultimo saluto a Ennio.E avrei volutoanche dirgli in quale guaio mi aveva lasciata e come si erano comportati i suoi figli. Ma tanto,già lo sapevo comeavrebberisposto: di non pensarci. Di non prendermela. I suoi figli erano fatti così e che non erano mai andati d’accordo nemmeno con lui,né con la loro madre, e nemmeno tra loro.
Ora sono qui, con i miei nipotini, mia figlia e il marito lavorano tutto il giorno,e allora faccio la nonna a tempo pieno, e grazie a Dio i bimbi mi stanno ridando un po’ di serenità.
 


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