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Un aiuto mancato è una colpa

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

1
DIC
2016
Lo psichiatra può rispondere di omicidio colposo se il paziente si suicida
 
 
Parlando di follia mi vengono in mente alcuni versi di Alda Merini: "Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita". 
Cos'è, quindi, la follia? Una disperazione non compresa? Una comunicazione interrotta? Oppure la follia è il destino di una solitudine dell'anima? Chissà come stanno veramente le cose, certo Sigmund Freud a questa domanda risponderebbe: "L' amore è il passo più vicino alla psicosi". 
Di mancanza di amore e di tanto altro ci si può ammalare e, spesso, quando si cade nelle voragini dell'anima è difficile trovare la strada del ritorno. Questo può accadere a molte persone e nei casi più gravi alcune di esse decidono di togliersi la vita. Può accadere però che in alcune circostanze la persona malata non sia stata aiutata fino in fondo e questo può determinare delle responsabilità in capo ad altre persone.
In questa storia giudiziaria un medico psichiatra è stato condannato per omicidio colposo di una sua paziente.
 
 
IL CASO 
Nel caso in questione uno psichiatra era stato accusato di omicidio colposo da parte dei familiari di una donna, in cura presso il medico, che poi si era tolta la vita. 
In buona sostanza le accuse mosse  nei confronti del sanitario erano quelle di aver sottovalutato lo stato di salute della donna al punto da averle sospeso anche i farmaci.
Va rilevato che il medico è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti; nel caso in esame lo psichiatra aveva sottovalutato, in modo negligente e superficiale,  una serie di condotte preoccupanti della paziente che l'avevano poi portata al suicidio.
L'uomo ha cercato di difendersi sostenendo che ci fosse stato un travisamento della prova e cioè la morte  era stata determinata da un malore vascolare e non dal suicidio.
In definitiva la responsabilità dell'uomo è emersa per aver prima ridotto e poi sospeso la cura farmacologica alla paziente, che aveva più volte dato prova di gesti di autolesionismo.
[Corte di Cassazione sentenza n. 33609 del 2016]


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