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La Repubblica fondata sullo spread

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

6
SET
2018

Ci siamo: i mercati settembrini sono pronti a mostrare ai debitori i propri debiti, e non a rimetterli, come ci suggerisce il “Padre Nostro”, evidentemente inascoltato da chi presta denaro a uno Stato. Ritorna dunque la riflessione sull’articolo primo della nostra Costituzione, che narra di uno stivale fondato sul lavoro. La domanda cattiva sarebbe d’uopo: “sul lavoro di chi?”
L’Italia è uno degli Stati più indebitati d’Europa e paga continuamente somme importanti per finanziare le attività indispensabili al suo funzionamento. In un sistema finanziario complesso e connesso come quello dei buoni emessi a copertura di queste esigenze, pagare bassi tassi di interesse è fondamentale per non essere costretti a destinare somme aggiuntive al pagamento degli interessi sul debito, potendole destinare a investimenti o altre spese. Più alti sono gli interessi e meno soldi si hanno a disposizione per riparare ponti, costruire ospedali, sovvenzionare ricerche in innovazione e sgravi fiscali per le aziende che intendono assumere cittadini. E’ un concetto semplice, che ricorre anche nella vita privata di chiunque abbia contratto un mutuo, ma sembra che il nostro paese, di tanto in tanto, voglia dimenticarsi di questo piccolo e determinante dettaglio, facendo finta che il debito non ci sia, mostrando le spallucce e promettendo danari a destra e a manca, in barba alla montagna che schiaccia il bilancio del nostro Stato, cioè i nostri debiti pregressi.
Immaginiamo un padre che abbia comprato casa, abbia da affrontare la sua brava rata mensile, ma decida di programmare un bel viaggio alle famosissime cascate del Niagara, destinando i soldi della rata all’avventurosa esperienza culturale. Come verrebbe giudicato un tale capofamiglia, nel caso che non riuscisse a far fronte alla rata, impegnato in un selfie presso le rimbombanti masse d’acqua in caduta libera? Credo che ognuno possa farsene un’idea. L’Italia è esattamente in questa situazione. Per anni, per molti anni, ci siamo trascinati dietro un gigantesco debito pubblico, che non abbiamo voluto e saputo ridurre, fallendo nel principale obiettivo di una sana politica di bilancio: quello di lasciare ai propri discendenti un paese con i conti in ordine. Il nostro paese si è messo nelle condizioni da dipendere dai capricci e dai voleri della speculazione finanziaria, ma non perché fuori dai nostri sacri confini ci siano mostri cattivi, alieni infestanti o rettiliani. Semplicemente, chi presta denaro, cerca di farlo ricavandone il massimo profitto e le migliori garanzie. Più alto è il rischio che il prestito sia infruttuoso, più si innalza il costo del denaro che occorre al debitore per finanziarsi e l’Italia è in debito, in torto, in difetto.
La reazione ciclica di alcuni governanti è di accusare il mondo, brutto e cattivo. “Non ci sto, non gioco più, sono stufo di questo debito, di pagare gli interessi, voglio comprarmi il telefono nuovo”. Battono i piedini, raccontano delle mirabolanti cose in programma: cambiare l’auto, fine settimana a Parigi, persino rifare i mobili della cucina. Il problema è che vogliono fare tutto questo con i soldi degli altri e quel denaro ha un costo, che più diventa alto, più sottrae risorse. Capirlo non è difficile, accettarlo è un atto di responsabilità, comportarsi in modo da non favorire l’interesse dei finanziatori a pretendere di più è un preciso dovere di chi ha a cuore le sorti del paese. L’evocazione di sforamenti ai vincoli di un bilancio fortemente in deficit, come quello italiano, favorisce condizioni peggiori per la spesa pubblica. La noncuranza verso i vincoli assunti con i propri debiti è il miglior viatico perché essi pesino ancora di più sulle tasche di chi li ha assunti.
La libertà ha un costo ed un prezzo. Anche la libertà di spesa. Essa impone di pagare i propri debiti, prima di assumerne di nuovi, perché ogni corda, a furia di essere stiracchiata, prima o poi può spezzarsi e portare a rovinosi fallimenti.



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