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Caso Cucchi/La storia di Stefano, un pugno allo stomaco

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

20
SET
2018

Nel 2009 un trentunenne romano viene fermato dai Carabinieri e trovato in possesso di hashish e cocaina. Morirà in ospedale dopo sette giorni di botte, abbandono e negligenza. Un film ne racconta la tragedia

Dal 12 settembre in alcune sale italiane - davvero poche per la verità - e sulla piattaforma tv online Netflix possiamo trovare qualcosa di molto interessante. Un film che probabilmente nessuno di noi avrebbe mai immaginato di vedere. Anzi, per essere più precisi: un film che nessuno di noi avrebbe mai voluto vedere riguardo una storia che non avremmo mai voluto sentire. “Sulla mia pelle”, per la regia di Alessio Cremonini, affronta infatti una delle vicende più controverse degli ultimi anni: il caso Cucchi.
Per quei pochi che non conoscono i fatti, in breve: il 15 ottobre del 2009, il trentunenne Stefano Cucchi viene fermato dai Carabinieri e trovato in possesso di hashish e cocaina. Sette giorni dopo morirà in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Sette giorni di botte, abbandono e negligenza che hanno portato la famiglia a oltre 7 anni di battaglie legali, perizie e centinaia di testimonianze per arrivare alla verità. Proprio quest’anno il maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima (principale testimone nel processo contro cinque carabinieri) ha confermato in aula le accuse rivolte ai colleghi e per questo motivo ha subìto un allontanamento e un demansionamento.
Il film di Cremonini ripercorre proprio quegli ultimi 7 giorni e lo fa in un modo delicato ma allo stesso tempo incisivo. È come un bisturi. Non c’è bisogno di usare una lama più grande e di affondarla con veemenza perché è tutto già sottopelle, quasi in superficie, come se avesse il bisogno impellente di mostrarsi. Nonostante questo bisogno, però, quello che in teoria dovrebbe essere il fulcro di tutta la vicenda noi non lo vediamo. Il pestaggio, infatti, non viene mai mostrato. Noi non vediamo le botte ma ne vediamo gli effetti. La violenza resta dietro una porta chiusa davanti a noi e forse proprio questo la rende più angosciante. Il suo essere inenarrabile ci costringe ad immaginare e provare tutto. Cosa fanno a Stefano in quella stanza? Cosa sente? Quanto dolore prova? È un “esercizio” che permette al regista di non cadere nella trappola del voyeurismo gratuito e costringe lo spettatore ad avere a che fare con il proprio grado di empatia, non sempre poi così scontato.
La regia è un prolungamento di Stefano ma allo stesso tempo anche dello spettatore e in un certo senso proprio per questo riesce ad abbattere quella che in gergo viene chiamata “quarta parete”, quel muro immaginario tra scena e realtà. Noi siamo lì con Stefano. Vorremmo abbracciarlo, prendergli il pacchetto di sigarette quando non ce la fa, anche se sappiamo che gli farebbe bene non fumare. Vorremmo scuoterlo quando non parla, quando si nasconde sotto le coperte. Vorremmo dargli la cioccolata che tanto desidera, con quella fretta che ti prende quando un tuo caro che sta male ti chiede qualcosa. Come se quella fretta ci permettesse di farlo guarire più velocemente, di avere la certezza di salvarlo. Vorremmo chiedergli di parlare più forte quando la voce inizia a fuggire via con la sua stessa vita. Vorremmo dirgli che la sua famiglia sta facendo di tutto per vederlo e ad Ilaria vorremmo dire che certamente Stefano non è arrabbiato con loro, che lo sa che più di qualcosa in questa storia non quadra. Però poi ci ricordiamo di quella “quarta parete” e il senso di impotenza è un pugno allo stomaco. Vorremmo riaccendere la fiammella di vita di Stefano ogni attimo che passa e allora, per un momento magari, ci illudiamo anche di trovarci davanti ad un semplice film di finzione, di quelli con il lieto fine quasi obbligatorio.
“Sulla mia pelle” è un film imparziale. Stefano non è dipinto come un santo, sono evidenti le contraddizioni della sua persona, probabilmente anche un po’ divisa tra ciò che avrebbe voluto essere per la sua famiglia, ciò che era realmente e anche come voleva apparire nel periodo di detenzione. Rischiando di essere ripetitivi, non si può non riconoscere in questa prova attoriale la consacrazione di Alessandro Borghi come uno dei migliori attori italiani degli ultimi anni. Borghi non interpreta Stefano. Borghi è Stefano. E non si tratta solo dei chili persi o dell’accento marcato ma della totale immersione in un corpo e in una mente violati, senza più forza di vivere.
Anche le istituzioni sono presentate come una categoria dalle tante sfaccettature. È evidente la consapevolezza di un apparato corrotto ed è altrettanto evidente la necessità di interrogarsi senza censure sul sistema carcerario italiano e più in generale sull’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. Perché nessuno si senta più solo e abbandonato. Perché non ci sia più un altro Stefano ma anche Federico, Giuseppe, Michele, Carlo…



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