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MARCELLO RUGGERI: Quanto è bello ritornare

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

6
APR
2012

 

Ha vissuto la Firenze universitaria e una parentesi artistica come musicista, ma come Ulisse ha scelto il ritorno e ora dirige un Istituto Scolastico d’eccellenza, l’Agrario di Locorotondo e Alberobello 
 
«Povera e nuda vai, Filosofia! – dice la turba a vil guadagno intesa.»
(Francesco Petrarca, Canzoniere)
 
Entrando nella redazione di Extra Magazine il visitatore non potrà non notare la grande stampa, appesa al muro, che riporta la splendida poesia di Costantino Kavafis intitolata “Itaca”. Non posso riportarla per ovvi motivi, ma vi invito a leggerla per il suo significato; significato che ognuno di noi in redazione ha fatto proprio, non solo per quanto riguarda il lavoro, così da offrire sempre un approfondimento di ottima qualità per voi lettori, ma anche per la vita di tutti i giorni.
 Il poemetto di Kavafis simboleggia la ricerca della saggezza attraverso un percorso lungo di esperienza e di studio, laddove Itaca rappresenta la meta ultima, ovvero la perfezione di sé. 
Parto da questo per parlare di come è oggi considerata la scuola: essa dovrebbe rappresentare un’odissea, nel senso buono del termine, e Itaca dovrebbe essere, come detto, il raggiungimento della propria dimensione. Purtroppo, nell’era dove l’apparire ha soppiantato l’essere, Itaca diventa semplicemente un diploma o una laurea, in ogni caso un pezzo di carta ottenuto alla meglio, senza davvero comprendere l’importanza delle varie tappe toccate durante il viaggio. Il diploma rappresenta solo un piolo della scalata sociale. Che tristezza… 
Questo è uno dei tanti temi toccati con Marcello Ruggieri, 61 anni, Dirigente Scolastico dell’Istituto agrario di Locorotondo e Alberobello. Anche lui, come molti studenti del Sud oggi, andò fuori a studiare filosofia. A Firenze, per la precisione, che, tra gli anni ‘60 e i ‘70, era un centro di eccellenza. Dopo gli studi ha conosciuto una parentesi artistica, partecipando come percussionista alla tournée de “La Cimice” di Majakovskij, diretto dal grande Carlo Cecchi e musicato dall’eccelso Nicola Piovani. Ma la sua vera vocazione era l’insegnamento: ha cominciato a Milano ed è poi ritornato, nel 1990, in Valle d’Itria, dove tutt’ora risiede e lavora. Come Ulisse, lui è tornato savio a Itaca.  
 
Il ’68. Lei lo ha vissuto dapprima come studente. In seguito, diventando insegnante e dirigente d’Istituto, ne ha potuto constatare gli effetti. Che cosa ritiene sia stato, alla fine dei conti, il ’68?
«Anzitutto dico che non bisogna commettere l’errore di schematizzarlo eccessivamente. Il ‘68 è stato un fenomeno di amplissima portata, sia sociale che culturale, ma con tante sfaccettature. Bisogna, a questo riguardo, essere più specifici; nel senso che dobbiamo vedere cos’è stato per noi il ‘68 qui, in provincia, e cosa è stato nei centri maggiori di studi. 
A Martina, nel biennio  ‘68-‘69, era prevalente il desiderio di una scuola diversa, che fosse culturalmente al passo coi tempi, che potesse utilizzare una didattica più coinvolgente e che potesse lasciare spazio alla discussione, al dibattito e al confronto di idee. A quei tempi era assolutamente una novità, perché all’epoca la lezione si svolgeva nelle forme tradizionali, con gli allievi quali recettori attraverso la comunicazione verbale, la spiegazione del docente. 
C’era il bisogno di rinnovare i contenuti e di aprirsi a un orizzonte molto più ampio, alle problematiche dell’antiautoritarismo e dell’emancipazione del terzo mondo. Per esempio, per noi provinciali è stato possibile conoscere alcuni autori che, fino a quel momento, erano del tutto sconosciuti. Parlo, per esempio, di Herbert Marcuse e degli altri autori della Scuola di Francoforte, di grandi scrittori come Camus e Kafka, Thomas Mann, Musil e Joyce, della psicoanalisi: veri e propri punti di riferimento per l’epoca. Tuttavia, i primi stimoli alle problematiche terzomondiste li ho ricevuti proprio qui a Martina con l’esperienza di Mani Tese: raccoglievamo la carta straccia per poi rivenderla e finanziare delle opere nel terzo mondo. Ma poi c’è stato l’incontro con il cinema, l’arte e la musica, la mia più grande passione. Amo ogni genere di musica: dal blues al jazz, dal pop alla classica, ma come chitarrista e cantante ho interpretato più spesso autori italiani: Fabrizio De André insieme a Battisti e a Dalla erano i pezzi forti del mio repertorio.  
 
Ogni governo, non appena si installa, presenta ogni volta come prima azione una propria riforma scolastica. Ripercorrere la storia legislativa scolastica degli ultimi dodici anni, a partire dalla riforma Berlinguer (10 febbraio 2000), è come canticchiare “Alla fiera dell’est”: ogni riforma presentata dal ministro in carica di turno soppiantava e abrogava quella del precedente. Cosa ha portato tutto ciò?
«Sicuramente un grande disorientamento. Credo che molte esigenze nel definire la professionalità dei docenti siano rimaste ancora non pienamente soddisfatte. Da questo punto di vista, credo che ci sia molto lavoro da fare, nel senso di valorizzare le professionalità che operano nella scuola. Ci sono tantissimi docenti che spendono le loro migliori energie per la scuola, però non c’è sempre un adeguato riconoscimento. Non solo da un punto di vista economico, e questo è un fatto risaputo, ma anche dal punto di vista dell’inquadramento giuridico e del riconoscimento di nuovi profili professionali che sono sempre più indispensabili per la gestione della scuola. Penso, per esempio, al ruolo centrale che deve avere sempre più il coordinatore del consiglio di classe.  
 
Potrei essere frainteso per ciò che sto per domandarLe, ma non crede che anche le scuole aprano le porte a personalità che sono interessate solamente al diploma come status symbol? Va bene il diritto universale allo studio, ma è anche vero che lo studio non è alla portata di tutti. 
«Farei una distinzione tra vari fenomeni: c’è una forte crisi di valori, che investe tutta la società; da un lato, i mezzi di comunicazione di massa, dall’altro la crisi della famiglia hanno prodotto disorientamento nei giovani. E’ chiaro che, di conseguenza, sulla scuola si riversano richieste e aspettativa maggiori. Ci ritroviamo dei ragazzi con tanti bisogni, magari espressi anche in forme violente cui non sempre siamo in grado di dare risposte adeguate. Direi che oggi viene richiesto agli insegnanti una professionalità a tutto campo e da questo punto di vista bisogna fare molto. 
Alcuni concetti, per fortuna, stanno diventando sempre più chiari ed evidenti. L’idea, per esempio, che l’apprendimento passi attraverso una relazione che sia educativa e autorevole allo stesso tempo è una di queste. Il docente dev’essere anzitutto un educatore, una persona di grande sensibilità umanae culturale.
 A questo bisogna aggiungere un rinnovamento delle metodologie, affinché i ragazzi siano resi più partecipi e attivi. Noi, intanto, dobbiamo riconoscere la pluralità delle intelligenze e farle venir fuori con un insegnamento di tipo orientativo, che faccia emergere le specificità di ciascun ragazzo. Attualmente i dati ci dicono che c’è stato un sorpasso degli istituti tecnici sui licei; forse comincia ad affiorare l’idea che le scuole superiori hanno pari dignità purché siano scuole serie e condotte da docenti competenti .
Il lavoro che stiamo facendo noi, come Istituto Agrario, riguarda proprio quello di dare maggiore spessore culturale e scientifico all’offerta formativa. Oggi più che mai bisogna avere un’ottima preparazione scientifica perché le tecnologie cambiano ed evolvono continuamente, crescono, progrediscono e i ragazzi devono avere una mentalità adeguata a questo tipo di società.» 
 
Le racconto una storia: pochi anni fa, un ragazzo appassionato di umanistica si iscriveva a Economia perché quest’ultima facoltà prospettava più sbocchi lavorativi rispetto a quella di lettere. Risultato: il ragazzo si è laureato a fatica e oggi fa un mestiere che detesta. E’ frustrato, scontroso e insoddisfatto, ma almeno ha un’entrata fissa. Se quel ragazzo dovesse scegliere la facoltà oggi, invece, direbbe: “Meglio seguire la mia passione: tanto finirò disoccupato in tutti i casi”. Oggi, con la crisi, le possibilità di trovare un posto come commercialista sono le stesse che si hanno per diventare professori di latino e greco. La domanda che le faccio è: la crisi dell’Avere potrebbe favorire una maggiore riscoperta della propria dimensione e del proprio Essere?
«E’ probabile che questa situazione di crisi possa stimolare di più gli studenti a interrogarsi sulle proprie vocazioni. Io voglio sperarlo, però francamente in questo momento vedo piuttosto in modo pessimistico il destino dei nostri giovani. Anche perché credo che la nostra società nel suo insieme soffra una crisi di prospettiva. Oggi più che mai dobbiamo fare i conti col destino della società, e direi anche col destino della stessa umanità. Ci troviamo di fronte a problematiche che prima erano assolutamente ignorate: l’idea, ad esempio, che vi sia un limite alle risorse del pianeta. Questa considerazione viene fuori in tutta la sua drammaticità e prospetta scenari assolutamente inediti. Ci sono problemi di portata planetaria che si riversano nelle scelte politiche e strategiche che i vari governi devono affrontare. Vedo la difficoltà, non solo in Italia e in Europa, di assicurare all’umanità la sopravvivenza su questo pianeta.»
 
E, a proposito della storia che Le ho raccontato poc’anzi, che risponde a chi Le dice “litterae non dant panem”?
«Per mia forma mentis non posso assolutamente pensare che, con la situazione di cui si parlava, la nostra società possa rinunciare alla cultura umanistica, considerando poi che il nostro Paese ha dato contributi fondamentali allo sviluppo di questa cultura, così come anche l’Europa. E’ una dimensione irrinunciabile ed è probabile che anche da parte dei giovani ci sia una riscoperta. Oggi più che mai c’è bisogno di porsi degli interrogativi.»
 
Paragono sempre i miei coetanei a Ulisse: essi salpano alla ricerca della conoscenza (lo studio fuorisede) ma, a differenza dell’eroe itacese, loro preferiscono stabilirsi da Circe (nord Italia) o da Calipso (estero) in cambio dell’immortalità (lavoro!). Dimenticano la modesta ma bellissima Itaca (il Meridione d’Italia), che invecchia e pian piano muore. Un suo pensiero riguardo alla fuga di cervelli dal nostro Sud.
«Questo appartiene alla mia esperienza umana. Io ho fatto la scelta di andare a studiare fuori, ma c’era anche fondamentalmente il bisogno di uscire dal contesto della provincia per confrontarsi con altri modelli. Non so quanto oggi questo andar fuori possa offrire: si pensi, per esempio, al problema leghista e ad altri contesti in cui c’è un incanaglimento della società degli uomini verso altri uomini solo perché hanno la pelle di colore diverso o perché provengono da altri contesti. C’è una ripresa, seppure in forme non immediate, del razzismo, del rifiuto dell’altro. Uscire dal proprio contesto aiuta sempre. Il fatto poi di trovare altri modelli che stimolino la crescita mentale, è tutto da vedere.
Per quanto riguarda il ritorno, anche questo fa parte della mia esperienza di vita. Merito anche di mia moglie, che non è del Sud ma che se ne è innamorata e vi ha voluto trascorrere la seconda parte della nostra vita insieme. Certamente abbiamo bisogno di intelligenze, cultura e professionalità. Ma è una mancanza che si avverte anche al Nord e anche in Europa. C’è proprio una crisi di professionalità e di competenze. Su questo bisogna lavorare.»
 
Una delle tante azioni del governo Monti osteggiate dalla gente è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che favorirebbe, secondo i detrattori, la nascita di università di serie A e di serie B. Cosa ne pensa?
«Io non credo che l’abolizione del titolo legale di studio possa di per sé comportare un cambiamento o contribuire a migliorare il sistema formativo. Credo che sia, se non proprio un falso problema, una preoccupazione secondaria. La vera difficoltà è quella di far funzionare le università. E la maggior parte delle università italiane sono delle tragedie immani in questo momento e se ne discute troppo poco. Della scuola, si discute sempre troppo poco…»
 
 
   
 


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