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Allarmisti, negazionisti e minimizzatori

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

5
NOV
2020
Perché alcuni negano l’impatto del contagio e altri addirittura il contagio stesso? E perché altri si preoccupano più del necessario? Storia di un problema comune che si diffrange in una moltitudine di interessi e interpretazioni personali.
 
In questi tempi assai confusi, la gente, divisa sulle varie possibili interpretazioni dei fatti visti e raccontati, quasi all’unanimità concorda almeno su un punto, ossia sull’esistenza di un fenomeno tutto umano: l’infodemia! Siamo costantemente inondati da un’enorme quantità di notizie che provengono dalle fonti più disparate. E, lo ammetto, risulta assai difficile fare ordine, valutare l’affidabilità di ciascuna fonte e leggere i fatti al netto delle opinioni personali e dei discorsi di certa politica non sempre in buona fede. Insomma, ci è difficile capire con precisione ‒ dico: con precisione! ‒ quel che sta accadendo, perché nessun comune cittadino ha il potere di monitorare la situazione effettiva, quindi di conoscere in tempo reale l’intera progressione del contagio (sommerso incluso!), il potenziale infettivo di ciascuna categoria (pre-sintomatici, paucisintomatici etc.) e di ciascun individuo (dipende dal numero e dalla tipologia dei suoi contatti…); nessuno conosce nel dettaglio i vari tempi della più o meno invalidante degenza domestica, né la portata degli eventuali danni biologici a lungo termine, per non parlare dei tassi di mortalità ricavati combinando statisticamente età e patologie pregresse, perché questi dati li conosceremo con maggiore precisione solo dopo aver stilato il consuntivo di fine pandemia.
Insomma, ognuno ha modo di raccogliere informazioni comunque parziali e in gran parte indirette. I fatti, pertanto, possono sembrare per lo più lontani e assai scollati dall’esperienza in prima persona. E molti, in questo trasognato disorientamento generale, finiscono per essere certi solo di quel che sentono dentro, di quello provano al loro interno.
Così chi sente dentro di sé la fiera combattività di darwiniana memoria, cruda o disperata che sia, tenderà a proseguire dritto per la sua strada, perché in una certa misura accetta il rischio di farsi male e, a malincuore, non esclude del tutto il rischio altrui. E, per costoro, ancor meglio convincere e convincersi che il rischio non ci sia affatto. Così si nega e si minimizza non tanto il virus, su cui nessuno ha certezze assolute, ma l’eventuale danno che si potrebbe arrecare a sé o ad altri. C’è chi lo nega in toto nel tentativo di scacciare l’idea stessa del male, c’è chi lo minimizza per non pensare alle umane miserie che ne potrebbero scaturire e c’è chi invece lo fa perché non vuole accettare l’idea che un suo comportamento sbagliato possa nuocere a qualcuno. E poi c’è anche chi, in maniera molto più sottile, cerca di razionalizzare il tutto argomentando tesi del tipo: «sarebbero morti comunque», «sono morti “col” e non “di” Covid»… Posizioni in gran parte discutibilissime, vuoi per il significativo eccesso di mortalità che si è registrato nelle zone più colpite dalla prima ondata, vuoi per il repentino abbassamento dell’aspettativa di vita in molti territori, vuoi perché, ricordiamolo, c’è modo e modo di morire, e non penso che tutti «sarebbero morti comunque» soli e soffocando! Ma chi lotta per vivere e sopravvivere pensa giustamente alla sua di vita che, più o meno realisticamente, vede minacciata dallo spettro non meno terribile dell’indigenza.
D’altro canto, chi avverte con più forza il sentore della morte, chi è maggiormente consapevole degli umani limiti e più vicino alla sofferenza, propria e altrui, sarà maggiormente portato a focalizzarsi, in termini più o meno realistici, sul danno che potrebbe subire egli stesso o cagionare ad altri. Quindi, in ragione di questo suo modo d’essere, tenderà maggiormente a confrontarsi con l’angoscia dell’ignoto e con quel senso di colpa che deriva dalla convinzione di non aver mai fatto abbastanza.
Ma, darwiniani o esistenzialisti, un po’ tutti temono di perdere qualcosa, e tutti, su entrambi i fronti, lottano con argomentazioni solo in apparenza divergenti, perché chi difende il suo lavoro difende la sua vita, così come difende parimenti la sua vita chi pensa maggiormente alla salute. E non c’è lavoro senza salute e non c’è salute senza lavoro.
Urge pertanto una visione d’insieme che trascenda gli interessi e le convinzioni personali. Un metodo che faccia possibilmente affidamento sulla nostra innata capacità di organizzarci e coordinarci, dall’alto verso il basso e viceversa. Un metodo che contemperi, per quanto possibile, le esigenze dei singoli e della società nel suo insieme. Perché non esiste una soluzione valida per tutti, ma tante possibili soluzioni per ogni specifica situazione lavorativa e familiare. E spetta comunque al buonsenso di ciascuno ponderare e ridurre al minimo i rischi soggettivi, non farsi vettore dell’infezione e trovare, nella gestione complessiva delle proprie faccende, quel giusto equilibrio tra risorse disponibili e problemi da affrontare. Di necessità virtù, saremo costretti ad aguzzare ulteriormente l’ingegno, a industriarci per escogitare accorgimenti utili al lavoro in sicurezza, ben sapendo che bisognerà, per il momento, dare nuova forma a certe nostre abitudini consolidate. Parafrasando un noto proverbio: «non aspettare che passi la tempesta ma impara a ballare sotto la pioggia»


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