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La panchina

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

13
SET
2013
Durante la scorsa settimana sono stato ospite, per alcuni giorni, della nostra Martina. Dopo due anni di forzata vacanza dalla città natale, ho particolarmente apprezzato il pellegrinaggio della memoria nei luoghi e nei ricordi della mia infanzia e giovinezza. Tra i vicoli e le piazzette della città antica, tra i palazzi e le chiese, tra i giardinetti e le ville, i rumori, i colori, gli odori, le risate sono ritornati prepotentemente reali, provocandomi un’emozione fisica di rara intensità da diventare quasi dolorosa. Oggi come allora, quando per noi ragazzi non vi erano molte alternative allo “struscio” prolungato per trascorrere le ore di svago dallo studio, ho consumato la suola delle scarpe sul caldo e duro selciato della Villa Comunale, dello Stradone, di Piazza Roma, e giù per il “Ringo” fino alla Basilica e Piazza del Plebiscito. Ma quel che ha confortato le mie maratone cittadine, spesso solitarie, è stato il dispiegamento inatteso delle tante panchine che punteggiano il Borgo. Ne sono rimasto invero molto sorpreso, piacevolmente, anche perché ho abitato per lunghi anni nelle città padane che non hanno la stessa concentrazione di supporti al “viandante” stanco, vuoi perché è meno radicata la tradizione delle lunghe “vasche” nel centro delle città di quanto non lo sia per noi, vuoi perché le differenti condizioni climatiche spesso le sconsigliano. Così in qualche modo la panchina è diventata l’immagine simbolo della mia permanenza nella città Ducale. Ma, in verità, due episodi di cui sono stato testimone hanno contribuito a nobilitare l’aspetto spirituale legato a questo umile oggetto.
Era il tardo pomeriggio dello scorso 6 settembre e stavo riposando, appunto, su una delle panchine della Villa Comunale in attesa di incontrarmi con l’amico Francesco, quando il suono lacerante della sirena di un’autoambulanza ha squarciato l’aria sonnacchiosa che precede il tramonto. Il suono è purtroppo così frequente nelle nostre città che non vi ho prestato particolare attenzione. Solo parecchi minuti dopo, lasciando la Villa e avviandomi verso il Tito Livio ho scorto le luci intermittenti dell’autolettiga e delle macchine dei carabinieri, ed una moltitudine di persone che, in religioso silenzio e a debita distanza, facevano corona intorno ad una delle panchine del giardino prospiciente l’austero Istituto. Sulla panchina era seduto un uomo, il capo esteso all’indietro a toccarne la parte più alta, solo apparentemente addormentato data l’innaturale posizione della testa. Accanto a lui in piedi, immobile anch’egli, un militare dell’Arma sembrava vegliarlo. Quell’uomo, probabilmente colto da malore improvviso, aveva scelto di comporre dignitosamente le sue spoglie terrene su quella panchina per compiere l’ultimo viaggio. Quella stessa sera, confesso ancora piuttosto turbato da quanto accaduto precedentemente, mentre attraversavo la Piazza XX settembre in direzione dell’arco di Santo Stefano, su una delle panchine che fanno ala con gli alberi frondosi al passaggio dei passanti, una giovane donna era seduta da sola reggendo tra le braccio il suo neonato che aveva attaccato al seno per allattarlo. Quella donna aveva scelto quella panchina per donare una delle quotidiane razioni di vita alla propria creatura. Forte è il simbolismo di questi due avvenimenti così lontani tra loro eppure così intrinsecamente legati, nella meravigliosa drammaticità di conciliare tra loro le due misteriose forze primordiali dell’esistenza umana, l’amore e la morte. Il filo rosso che lega in questo caso le due facce della stessa medaglia è la panchina che assume la funzione di Grande Madre, accogliente nel creare la simbiosi “vitale” tra madre e figlio e protettiva nel distacco tra lo spirito dell’uomo ed il suo involucro terreno. Che sia di metallo, di legno o di pietra non potrò più considerare la panchina come un semplice  umile oggetto.
 


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