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Ritorno alla vita/3: Arrendersi mai

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

31
AGO
2012

 

Quando la cura e l’assistenza diventano più di un lavoro, ovvero quando anche da una tragedia si impara il senso della vita. Luigi e Massimo parlano della loro esperienza accanto a un ragazzo davvero speciale: insieme hanno imparato a sfidare le difficoltà quotidiane e sognano quel momento, quando squillerà un certo telefono
Nei giorni scorsi (mercoledì, ndr) hanno avuto inizio a Londra le Paralimpiadi 2012, ovvero i giochi paralimpici che videro svolgersi la loro prima edizione proprio vicino Londra nel 1948. Se nel caso delle miliardarie Olimpiadi dei record e degli effetti speciali il braciere olimpico è la culla del fuoco degli dei, nel caso delle Paralimpiadi per molti dei partecipanti significa essere come gli altri, forse, meglio degli altri, aggiungiamo noi. Meglio degli altri perché, a dispetto delle apparenze e delle convenzioni, da questi atleti come da tutti i diversamente abili c’è tanto da imparare. E questo lo hanno scoperto e lo scoprono ogni giorno i ragazzi che sono vicini a Mino, che vive la sua vita, in ogni caso straordinaria, su di una sedia a rotelle da ormai nove lunghi anni. Sapevamo di loro, ma non li conoscevamo questi ragazzi. Li abbiamo incontrati per caso, a una festa che poteva essere una come tante, eppure fin da subito abbiamo notato l’empatia che scorreva tra loro e Mino, un ragazzo che in un attimo ha visto cambiare completamente la sua vita. Mino, non un diversamente abile ma uno come loro, uno di loro. Abbiamo incontrato i due più “vecchi”, appena trentenni, con i quali abbiamo parlato della loro esperienza accanto a questo ragazzo speciale.
Luigi, Massimo e…?
Massimo: «Mino e un team di ragazzi brillanti, ognuno con le proprie capacità. Una squadra unita e questo è molto fondamentale, quello che può mancare a uno lo trovi nell’altro. Nel tempo abbiamo creato un gruppo affiatato perché, senza un gruppo così coeso formato da gente valida non si può fare niente. Sappiamo che intorno a Mino, altre ai genitori e ai fratelli, c’è gente valida con i requisiti giusti».
Qual è la patologia di Mino?
 
Luigi: «Mino, a seguito di un incidente stradale, non ha più l’uso degli arti e della parola. E’ una persona bisognosa di avere qualcuno affianco che riempia i suoi spazi, anche con una semplice passeggiata».
 
In che modo vi approcciate a lui?
 
Massimo: «Noi abbiamo instaurato con Mino un rapporto normale fatto non esclusivamente, come qualcuno potrebbe pensare, di coccole ma anche – se necessario - di rimproveri, chiaramente nel senso buono del termine. A volte si presentano delle circostanze che a lui in quel momento, per un determinato motivo, non vanno bene; così ognuno di noi “dialogando” con Mino gli fa comprendere la situazione che lui, da quel momento in poi, non la ripresenterà. Questo ci aiuta tantissimo».
 
Quindi il vostro lavoro si esprime non solo nella cura quotidiana della persona, ma anche nel fornirgli degli input.
 
Luigi: «Assolutamente sì. La cura vera e propria è esattamente quella di fornirgli degli input, è il trattarlo come una persona normale, farlo sentire come noi anzi, uno di noi. E’ bello la mattina guardarlo sorridere mentre si specchia, vederlo soddisfatto perché siamo riusciti a interpretare e capire i suoi gusti. Lui ama tantissimo stare negli spazi aperti con naturalezza, fare colazione insieme a noi al bar, pranzare con noi quando non lavora a livello abilitativo e, come credo avrai potuto notare, partecipare alle feste. Lui sta benissimo in mezzo alla gente».
 
C’è da dire però che nel  vedervi all’opera, date l’impressione che quello che svolgete non è un lavoro vero e proprio né, tantomeno, una missione. Allora, come possiamo definirlo?
 
Luigi: «Noi non lo consideriamo un lavoro, ma una realtà tutta da vivere.  In un lavoro, qualunque esso sia, difficilmente riesci a instaurare un rapporto di dare-avere così come è capitato a noi con il con il nostro amico, perché Mino è prima di tutto un nostro amico. Egli rappresenta una realtà molto ampia che spiegarla così, ora, in poche parole sarebbe riduttivo. Di sicuro è una grandissima responsabilità perché si ha a che fare con una persona che non può esprimersi normalmente ma che nondimeno ha la necessità di affermare una sua dignità, nonostante non sia più padrone di tutte le sue facoltà. Io sono al suo fianco da cinque anni, e ci basta uno sguardo per comprendere esigenze ed emozioni».
Massimo: «No, non è un lavoro, ma molto di più: impariamo a vivere, vivere quello che Mino ci trasmette. Lui ci insegna molte cose, e grazie a lui capiamo che molte cose, molti valori, molti gesti hanno un’importanza speciale. Per noi diventa facile trascorrere le giornate con lui, perché ci dà un senso. Ecco, questo è Mino per noi: il senso della vita».
 
Parliamo di progressi quotidiani. Oltre alla vicinanza e agli stimoli continui, in casi come questo si può sperare in un lavoro costante di riabilitazione?
 
Luigi: «La terapia riabilitativa prevede un protocollo molto lungo e, da punto di vista “fisico” Mino ha fatto dei bei progressi, lentamente ma gli ha fatti. Ma i maggiori progressi li ha fatti fare lui a noi, che in questo tempo l’abbiamo conosciuto a 360°. L’abbiamo compreso in profondità così, ci ha migliorati sia come operatori ma soprattutto come persone».
 
Eppure in questi anni, qualche momento di difficoltà ci sarà sicuramente stato. Sinceramente, avete mai pensato: “Ora mollo tutto”?
 
Massimo: «Mai. Noi proveniamo da esperienze diverse con un comune denominatore: una vita di sacrifici e sappiamo cosa significa lavorare e soffrire. Noi non vogliamo vedere Mino soffrire e da lì che ci viene la forza  e la capacità di andare avanti. E’ lui che ci dà veramente la forza. A volte il destino gioca brutti scherzi: vieni chiamato per dare e invece ricevi». 
Luigi: «Io in precedenza ho avuto un’esperienza personale molto simile, in quanto anche mio padre fu vittima di un grave incidente stradale. Conoscevo direttamente questo tipo di realtà, perché anche mio padre era una persona bisognosa di continua assistenza. Così quando mi è stato proposto di affiancare Mino, l’ho fatto sapendo bene ciò che facevo perché, purtroppo, conoscevo l’ambito nel quale mi sarei dovuto muovere, per via del calvario vissuto da mio padre. Sapevo come essere vicino a questo tipo di problemi e questo mi ha aiutato tantissimo, ma soprattutto sapevo che, in queste occasioni più che in altre, bisogna avere tanto cuore. Ho visto tante strutture e purtroppo tante situazioni difficili che ti colpiscono particolarmente, soprattutto quelle che riguardano bambini. Così riesci a capire cosa significa vivere; cosa significa al mattino quando ti svegli e riesci a stare in piedi sulle tue gambe. È la cosa più  bella che ci possa essere. Però a volte noi lo scordiamo ed è vivere  accanto a Mino che ce lo ricorda. E’ qualcosa di fantastico. Le mie non sono parole di circostanza, è Mino, sono gli individui come lui che ti trasmettono l’adrenalina per andare avanti. Approcciarsi a delle persone così sensibili con un sesto senso particolarmente sviluppato é qualcosa fuori dal comune. Ed è bellissimo stargli accanto a prescindere da quello che devi dargli, che può essere anche la semplice pacca sulla spalla. Bisogna considerare il tanto che si prende. In questi cinque anni ha fatto tanti progressi. Mino prima era irascibile, giustamente, anche per la rabbia derivata dalla sua condizione, ora ha fatto molti progressi, è fantastico. A stargli accanto si impara tantissimo».
 
Come direbbe Venditti: siete un gruppo di amici che non si arrendono mai?
 
Massimo: «I remi in barca non li tiriamo mai. E’ risaputo che bisogna sempre andare avanti. Ci sono dei problemi che si affrontano così come accade in ogni team ma dopo esserci parlati troviamo sempre il modo per migliorare, per andare avanti al massimo. Il nostro è un compito molto delicato perché non si ha a che fare con una macchina, un computer, ma con un uomo dalle tante sfaccettature delle quali bisogna tener conto».
 
Realtà come quella che state vivendo ce ne sono tantissime. La vostra è fatta di progressi e speranze, è così sempre?
 
Luigi: «Chiaramente molto dipende dalla patologia che presenta la persona, dal trauma, dai postumi dell’incidente. Ma per loro è importante avere affianco una persona che faccia capire questo: tu sei come me, nulla è cambiato. La nostra forza è questa. Per noi Mino non è un disabile ma è parte integrante della nostra vita. Se non lo vediamo con noi ci sentiamo vuoti, ci manca qualcosa. Il segreto è questo: consideralo un dono, sentirlo un dono non un “peso morto”. Il pericolo più grosso che si può correre in circostanze come questa, è la solitudine. Queste persone non vanno mai lasciate sole».
Massimo: «Nella nostra, come nelle altre realtà, si deve sperare sempre. Si deve anche credere e accettare questa “nuova vita”. Per esempio le persone come Mino hanno delle capacità emotive che si sviluppano e diventano superiori alla media. Loro parlano con gli occhi, i loro occhi dicono tutto e ogni nuovo cenno è un segno di speranza è adrenalina pura».
 
A voi un speranza in particolare ce l’avete?
 
Massimo: «Tutti noi abbiamo il numero del cellulare di Mino registrato sui nostri telefoni. Aspettiamo il giorno che lui stesso ci chiami».
 


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