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Col senno di poi/La colpa dei padri, la cecità dei figli

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

16
NOV
2012

 

Finito il tempo della retorica che ci ha sommerso per tutto il 2011 in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, possiamo forse cominciare a guardare a quegli avvenimenti con occhi più disincantati
 
Il sacrosanto ricordo e la riconoscenza nei confronti dei milioni di giovani figli della penisola che hanno sacrificato la loro vita per realizzare il sogno di una nazione italiana, non ci deve distrarre dalle conseguenze drammatiche che hanno avuto sul Paese, fino ai nostri giorni, i gravi errori politici che hanno portato all’architettura istituzionale dello Stato.
Per prima cosa è necessario chiarire un equivoco storico che riguarda due dei così detti Padri della Patria: Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour. Dalla caduta dell’impero romano d’occidente il nostro meraviglioso e tormentato territorio è stato campo di battaglia ed oggetto di concupiscenza di tutte le potenze egemoni che si sono succedute in Europa nel corso di 15 secoli. Anche la dinastia dei Savoia è da considerare come l’ennesima iattura straniera capitata all’Italia. La Savoia è da sempre territorio francese e i Savoia sono dei feudatari francesi che solo per mero tornaconto personale, per accrescere il proprio dominio territoriale e il proprio prestigio nel consesso delle corti europee, si sono eretti a paladini dell’unità d’Italia. In realtà si sono comportati come ogni altro colonizzatore, annettendo la maggiore superficie di territorio possibile per sfruttarne le potenzialità economiche a proprio vantaggio e per scaricare su di esso le proprie inefficienze amministrative. Una volta raggiunto l’obiettivo, con la loro scellerata politica di colonizzazione del sud del paese a vantaggio del Piemonte, hanno di fatto creato ed incancrenito la questione meridionale che ancora oggi rappresenta il vulnus irrisolto di un Paese a doppia velocità. A conforto di queste mie convinzioni vorrei citare l’ultima fatica editoriale di Vito Tanzi, un saggio di recente pubblicazione intitolato “Italica” e sottotitolato “Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”.
Il Professor Tanzi è un economista pugliese, nato a Mola di Bari nel ’35, tra i più prestigiosi a livello planetario che dal 1956 vive negli Stati Uniti dove si è laureato alla Harvard University, dove per più di vent’anni è stato direttore del dipartimento di finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, nonché docente alla George Washington University ed all’American University.
Ebbene, dagli studi di Tanzi, si evince che nel 1861, all’atto dell’unificazione il 64% del debito pubblico totale dell’Italia era di origini sabaude, mentre l’incidenza del passivo che derivava dal Regno delle Due Sicilie era irrilevante. A differenza dei Savoia, i Borbone avevano l’avversione per i bilanci in rosso e le tasse. Il deficit italiano, oggi stratosferico, è cominciato in quel tempo se pensiamo al fatto che dal 1861 al 1896 il Regno d’Italia già creava un milione di debito pubblico al giorno, nelle lire di quel periodo. Il Regno di Sardegna evitò il fallimento trasferendo i suoi debiti all’Italia, così che i problemi finanziari dei piemontesi diventarono quelli di tutti gli italiani. È evidente come nell’unificazione a rimetterci è stato sopra tutti il Meridione, affossandolo.
Il peccato originale, se così vogliamo dire, sta nella miopia dei padri risorgimentali che si ostinarono a volere un Italia unita e centralista invece che adottare la forma federale con gli Stati Uniti d’Italia. Se ciò fosse accaduto, le cose sarebbero andate in maniera completamente diversa. Il grave contenzioso Nord-Sud, che affligge ancora oggi pesantemente le relazioni tra le diverse anime del Paese, avrebbe potuto essere evitato se l’idea dello Stato centralizzato fosse stato il punto di arrivo e non il punto di partenza del processo di unificazione. Come è stato possibile immaginare che i sette stati italiani pre-unitari, che avevano leggi e sistemi economici e tributari radicalmente differenti, sarebbero riusciti da un giorno all’altro a trasformarsi in uno stato unitario? Traslando quella situazione ai giorni nostri ci rendiamo conto che i problemi che stiamo affrontando nell’unione europea sono identici a quelli dell’Italia di 150 anni fa. Oggi come allora abbiamo preteso che tante nazioni con leggi diverse, sistemi istituzionali diversi, tasse diverse, sistemi doganali diversi, lingue diverse si mettessero insieme a tavolino, lasciando cadere dall’alto una costruzione sovranazionale che può esistere solo sulla carta (e forse neanche!).
Altro errore strategico, che si è tradotto in uno sperpero abnorme di risorse pubbliche, il trasferimento della capitale prima da Torino a Firenze e poi da Firenze a Roma. Nel 1861 sul territorio italico vi era una città che possedeva già tutte le caratteristiche culturali, economiche ed infrastrutturali per ricoprire degnamente il ruolo di capitale ed era Napoli. Dimentichiamo troppo spesso che Napoli era considerata, a buon diritto, la terza più importante capitale europea dopo Parigi e Londra.
La mancata adozione della forma federale dello stato ha portato, nel corso dei decenni, all’accentuazione della propensione Sociale del centralismo, problema in verità comune alla maggioranza delle nazioni europee, che per essere finanziata ricorre necessariamente all’aumento crescente della tassazione e del debito pubblico. Arriviamo così ai nostri giorni nella poco invidiabile condizione di avere un livello impositivo non più tollerabile per la popolazione ed una spesa pubblica che continua a lievitare, il tutto aggravato dalle bolle speculative che hanno completamente stravolto l’economia reale. A tutto questo si aggiunga un mercato del lavoro ingessato dalla incontrollata ed anacronistica capacità di veto dei sindacati verso qualsiasi forma di flessibilità; una burocrazia invadente e ridondante; una imposizione fiscale che raggiunge aliquote del 60/65% quando sarebbe fisiologico non superare la soglia del 30%. Più in generale siamo di fronte a una crisi irreversibile del sistema democratico anche perché molte delle discrasie che viviamo sono frutto delle decisioni del Parlamento, da anni ormai ostaggio delle pressioni lobbistiche il cui unico obiettivo è il profitto esasperato. Con buona pace del bene pubblico!
Nonostante la drammatica situazione la classe politica nazionale, a parte alcune lodevoli quanto sparute eccezioni, si rifiuta pervicacemente di riconoscere che la sola possibile via d’uscita dal pantano in cui si trova il governo centrale sta nella trasformazione federale dello stato, a condizione che le Regioni o le Macroregioni, non trasferiscano i loro debiti allo Stato. Se non si mette mano all’architettura del sistema, pressione fiscale e spending review servono a nulla.
Le colpe dei padri, come sempre, ricadono sui figli ma questi sono conniventi se continuano colpevolmente a commettere gli stessi errori.


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