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Elena Modio/La rivoluzione in carrozzina

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

7
DIC
2012

 

La vita di chi è costretto a muoversi sulla sedia a rotelle è molto difficile. Ma c’è chi compie lo sforzo titanico di provare a cambiare la cultura, come questa madre, testimone -per nulla silenziosa– del disagio del figlio e di chi come lui non può camminare
 
Mettendo da parte per un momento la superficialità che spesso si incontra nelle varie bacheche, mi piace pensare che dietro il “Mi piace”  di Facebook non ci sia solo un meccanico e sbadato movimento, bensì un segno di unità e di vicinanza alle idee in questione. Per quanto detto, non posso che essere felice di presentarvi Elena Modio, grande donna e mamma, incontrata da me proprio tra le vie di Facebook quando ho ricevuto l’invito al gruppo da lei fondato “Tu no? Neanch’io!”. Un gruppo libero, a cui tutti possono accedervi tramite la classica richiesta, che vuole diffondere le problematiche della lunga battaglia contro le barriere architettoniche con cui tutte le persone diversamente abili tutti i giorni devono avere a che fare. Elena lotta da ventisei anni, ma le cose non sono ancora cambiate, per questo è arrivato il momento di dire basta, per questo dietro il “Mi piace” ci deve essere una intensa attività che faccia capitolare la poca attenzione nei confronti di queste problematiche.
 
Come è nato questo gruppo e a chi è rivolto?
«Io sono mamma di una ragazzo di ventisei anni, che ha subito un trauma da parto e soffre di una paralisi celebrale infantile che lo ha costretto a iniziare a camminare tardi e male. Mio figlio, Marcello, è completamente indipendente pur utilizzando una sedia a rotelle, si è laureato in Giurisprudenza con il massimo dei voti, ha frequentato per due anni la scuola per le professioni legali e oggi sta preparando il concorso in magistratura più il praticantato presso un avvocato. Dal momento della sua nascita è iniziata la nostra battaglia per far sì che i suoi diritti, come quelli di tutti gli altri disabili vengano riconosciuti e rispettati».
 
So che non ami il termine diversamente abili.
«Negli anni, per trovarne uno “ politicamente corretto”, si è passati da “menomato” ad “handicappato”, fino al “diversamente abile”. Un inutile e a volte comico esercizio linguistico che serve più a consolare chi il termine lo usa, piuttosto che a identificare le persone a cui si riferisce. La disabilità è una condizione della persona, punto e basta. Il problema è proprio quello di far rispettare ciò che la nostra legislazione, che è una delle migliori di Europa, afferma. Non credo sia giusto che per fare qualsiasi cosa mio figlio debba sempre dover informarsi: per prendere un treno bisogna prima chiamare per essere sicuri ci sia il servizio di accompagnamento, (che spesso non c’è), poi arrivi lì e scopri gli scivoli occupati».
 
Come nasce il gruppo?
«Il gruppo nasce in un giorno particolare in cui ero molto arrabbiata perché era stato organizzato l’ennesimo evento culturale non accessibile, a palazzo Galeota, sede dell’assessorato alla cultura. In più i miei colleghi Marina Luzzi, Mario Panico e Tecla Caforio, volendo realizzare un servizio sulla questione e per capire davvero le difficoltà che provano tutti coloro che non possono camminare liberamente, hanno trascorso un sabato mattina, chi spingendo e chi sedendoci sopra, con la carrozzina di mio figlio. Dopo questa esperienza, per loro sconvolgente, abbiamo deciso di dar voce alla nostra voglia di far conoscere queste difficoltà. Il nostro è il gruppo degli uomini e le donne che pensano sia intollerabile che nella nostra città come in tutta Italia ci siano ancora luoghi pubblici inaccessibili per le persone con ridotta capacità motoria».
 
Come intendete agire?
«Per principio, non partecipo a eventi in luoghi dove ci sono barriere architettoniche: è un mio piccolo atto di protesta che però, essendo sola, non sortisce alcun effetto. L’intento del nostro gruppo è quello di far sapere alle persone che esiste questo problema ma che c’è anche la possibilità di intervenire attivamente in questa cosa. Purtroppo accade spesso che le varie associazioni lottino per le loro battaglie: animalisti, ambientalisti, c’è chi lotta contra la violenza sulle donne e così via.  Noi invece vogliamo far capire che è arrivato il momento di contemplare i diritti di tutti complessivamente. Dobbiamo capire che le persone disabili sono una minoranza, non sono un bacino di voti interessanti per cui i politici tendono a non occuparsene, ma se tutti insieme facessimo capire che la questione riguarda la comunità intera le cose cambierebbero. Non abbiamo bisogno della sensibilità degli amministratori, ma vogliamo la competenza. È vero, il comune e la provincia non hanno ancora un piano PEBA (piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche) ma noi vogliamo sollecitare affinché si faccia anche qui come è stato già fatto in altre città italiane. Non è possibile, che oggi, un ragazzo con una ridotta capacità motoria non possa liberamente scegliere la scuola da frequentare perché la maggior parte delle scuole taratine, pur avendo le rampe non ha gli ascensori, e quindi i ragazzi e i docenti disabili sono confinati al piano terra (spesso le iniziative si tengono nella famosa Aula Magna che si trova nella maggior parte dei casi nei piani superiori); un esempio di scuola che è invece completamente accessibile è l’istituto d’istruzione superiore Principessa Maria Pia».
 
Cosa chiedete?
«Per essere ascoltati chiediamo a chi vuole sostenere la nostra causa di non partecipare a eventi in luoghi con barriere architettoniche, chiediamo a chi organizzerà eventi di mettere un piccolo simbolo, quello della carrozzina, per segnalare che l’evento è normalmente accessibile, perché pensiamo sia un’ informazione importante come tutte le altre e oggi anche rivoluzionaria; chiediamo al sindaco di Taranto di non patrocinare eventi che si svolgono in luoghi con barriere architettoniche e di non concedere più la sala eventi del palazzo Galeota fino a quando non si sarà provveduto all’installazione dell’ascensore e nel caso in cui non fosse possibile, si sposti la sede. Credo alla fine si stiano chiedendo cose semplici, che dovrebbero essere già da un po’ la normalità».
 
Cosa vi aspettate?
«La nostra è una piccola battaglia di civiltà per cercare di far sentire responsabili tutti. Speriamo che finalmente la questione diventi nota e così magari si inizierà a stare più attenti quando si parcheggia la macchina al posto dei disabili, sugli scivoli. E se la sensibilità cittadina non dovesse cambiare, speriamo che si inizi con le sanzioni. Sono ventisei anni che chiedo sempre le stesse cose e pensavo con la mia lotta di poter regalare a mio figlio un futuro più sereno. Invece la cosa che più mi da rabbia è rendermi conto che se le cose non cambieranno: lui e tutti gli altri saranno costretti a rifare sempre le stesse battaglie e non solo, i bambini che nascono oggi avranno ancora più ostacoli da superare, e a scuola le ore di sostegno sono molte di meno. È arrivato il momento di dire basta, i diritti devono essere rispettati».
 


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