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LAVORO/ Dignità e futuro di una generazione sospesa

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

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OTT
2015
In un  presente  poco rassicurante, caratterizzato da riforme inefficaci e poche certezze sul versante della politica, ecco quali sono le luci e ombre sul mercato del lavoro dopo il Jobs Act. Ne parliamo con il professor Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del lavoro
 
"Il lavoro rende liberi", questa frase  brucia  come uno schiaffo  in pieno volto. Sappiamo bene che il lavoro è la chiave dell'autonomia e della dignità di ognuno ma, a causa della mancanza di valide e reali prospettive lavorative, giovani e meno giovani non riescono più a diventare protagonisti attivi della propria vita e del proprio futuro. Sempre più difficile gettare le basi per una progettualità esistenziale e costruire una  forte identità lontana da incertezze e insicurezze, quando ogni giorno occorre fare i conti con il lavoro che non c'è, oppure, nella "migliore" delle ipotesi,  è precario,  poco tutelato,  sottopagato  o in nero. Quale dignità possibile e quale orizzonte di senso e significato profondo per un giovane che ha  investito lunghi anni in percorsi formativi senza reali sbocchi,  per poi ritrovarsi adulto e senza lavoro? E quali tutele e garanzie per chi accede adesso nel mondo del lavoro? 
 
I nostri giovani pagano il malfunzionamento di Garanzia Giovani. Il piano nazionale  risponde realmente alla sfida del futuro?
«Il piano nazionale è poco efficace perché costruisce l’azione di Garanzia giovani sulle fondamenta dell’inesistente e non funzionante sistema di politiche attive italiano. E se si costruisce su fondamenta che non esistono si rischia di far crollare la casa, con coloro che nel frattempo ci sono entrati. Per questo ci troviamo oggi ad avere centinaia di migliaia di giovani che hanno creduto nel progetto e si sono iscritti, ma i nostri servizi per l’impiego non riescono a gestire il flusso e solo una piccola parte dei ragazzi ha ricevuto proposte concrete, che peraltro non conosciamo nel dettaglio e quindi non siamo in grado di valutare. Dall’altro lato, mancando un vero sistema che aiuta l’incontro tra domanda e offerta, le imprese stesse non credono in questo strumento, motivo per cui al momento sul portale online di Garanzia giovani abbiamo solo 1500 offerte di lavoro inserite».
 
Luci e ombre sul mercato del lavoro dopo il Jobs Act. Di fronte a riforme inefficaci,  pochi investimenti e  scarsa rilevanza delle politiche in tema di economia e lavoro, tutti i dati di scenario dicono che questa riforma non sta dando i risultati sperati. Lei ha definito il Jobs Act come il "nuovo apartheid". Cosa può dirci in merito e quale possibile via d'uscita?
Ho parlato di apartheid perché questa riforma genera un profondo dualismo tra giovani e lavoratori già inseriti nel mercato. Per essi rimangono le tutele già previste, mentre per chi accede adesso queste non sono previste. Il nodo principale è che è mancata la rivoluzione copernicana tanto annunciata. Questa, a mio parere, consisteva nel riconoscere che la divisione tra stabili e precari è figlia di una concezione novecentesca del mercato del lavoro, in cui lavoro coincide con posto di lavoro e tutto ciò che non ha questa estensione temporale (ossia il tempo indeterminato) è qualificato come precario. L’introduzione del contratto a tutele crescenti poteva essere una strada verso questo cambiamento di concezione ma l’averlo previsto solo per i nuovi ingressi da una parte, e continuare a presentare i dati sul lavoro all’interno della retorica stabile-precario dall’altra, mi sembra che ci allontanino da questa strada.
 
L'ultimo rapporto Svimez ha fatto luce sulla preoccupante situazione del Sud, lanciando l'allarme sulla crisi economica nel Mezzogiorno. A pagare il prezzo più  alto sono i giovani costretti ad abbandonare la loro terra e cercare di creare il proprio futuro altrove. Cosa può dirci in merito?
«I numeri del rapporto Svimez parlano da soli. Credo che il punto sia cercare di costruire spazi per il futuro, non sono preoccupato per il fatto che i giovani vadano al nord o in altri paesi a studiare o a iniziare un percorso lavorativo, sono preoccupato del fatto che non trovino spazi e opportunità per tornare al sud dopo queste esperienze. La mobilità dei giovani è una ricchezza imperdibile e non dobbiamo considerarla per forza come un male, male è che loro stessi in primis considerino senza speranza la loro terra e quindi non restituiscano tutta la ricchezza dei loro percorsi e delle loro esperienze ad un popolo che ne avrebbe grande bisogno».
 
Alla luce  di un presente disastroso, ha ancora senso parlare di merito e talento oppure occorre accettare l'idea di dover rinunciare alla personale vocazione, ormai lusso per pochi "eletti"? È giusto parlare ancora di sogni da inseguire e non di pragmatismo e realismo?
«Non vedo distinzioni tra sogni e pragmatismo se quando parliamo di sogni intendiamo mettere al centro i propri desideri, le proprie aspirazioni e le proprie capacità. In un momento di forte incertezza e cambiamento è difficile andare a cercare spazi in cui inserirsi rassegnati, è più semplice ed efficace creare questi spazi. E gli spazi li creeranno solo coloro che sono disposti ad investire, qui sì in modo realista, sui propri sogni e su quello che meglio sanno fare e possono offrire alla società. Siamo in un momento in cui il merito conta più di tutto anche in un sistema in cui esso non viene riconosciuto ufficialmente nei processi, ma spicca come evidenza».
 
Cultura,  innovazione e creatività  possono ancora forgiare il mondo e fare la differenza?
«Direi che siamo in un momento storico ed economico in cui queste tre caratteristiche sono la vera chiave di volta. Tecnologia e automazione stanno pian piano (e sempre più velocemente negli ultimi anni) sostituendo i lavoro più meccanici e standard, che un robot può fare meglio e con migliori risultati dell’uomo. Restano quindi tutti quei lavori, magari oggi non ancora esistenti ma che è necessario inventarsi, in cui la componente della creatività, e quindi della novità non prevedibili dalle macchine, è una componente centrale».
 
Parlando di formazione. Quale futuro per i tanti giovani che hanno investito lunghi anni in percorsi formativi deboli e senza futuro, per poi ritrovarsi adulti e senza lavoro? Devono entrare nell'ottica di dover accettare lavori precari, poco qualificati, sottopagati e lontani dalle proprie aspirazioni?
«È importante rendersi conto di una cosa: il lavoro è cambiato e sta cambiando in continuazione. È possibile che molti dei lavori per cui un giovane ha studiato non esistano più alla fine del suo percorso formativo o che siano profondamente mutati. Per questo sicuramente è importante fare inizialmente esperienze lavorative anche non perfettamente in linea con quello che si è studiato ma considerandole esperienze formative in cui scoprire e riscoprire quali sono quelle competenze trasversali che ogni percorso formativo, anche specifico, è in grado di fornire. Se le carriere classiche non esistono più occorre inventarsi carriere nuove, esplorare percorsi imprevisti, mettere a frutto quelle capacità polivalenti che spesso sono inutilizzate perché ci si indirizza subito verso strade oggi non più percorribili».
 
Sta prendendo piede in modo preponderante e preoccupante il business del lavoro gratuito, che va a pregiudicare ulteriormente dignità e futuro di questa nostra generazione sospesa. Chi mette a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze, anche per acquisirne delle altre,  dovrebbero essere comunque tutelato e ricevere un riconoscimento economico. Molti settori abusano di questo meccanismo. Cosa può dirci in merito?
«Occorre distinguere tra forme di genuina formazione sul luogo di lavoro e altre cose che sono vero e proprio sfruttamento. Percorsi di alternanza scuola-lavoro o di tirocinio curriculare sono momento fondamentali nella formazione di un giovane, che spesso contano di più di molte nozioni imparate sui banchi di scuola. A questo si affiancano spesso esperienze che, con la scusa di occupare un giovane e fornirgli competenze (cosa che spesso non accade), approfittano di lavoro gratuito o a basso costo. Questo va contro la filosofia base del lavoro che è uno scambio tra prestazione e riconoscimento economico. Si può accettare che in una fase formativa iniziale il riconoscimento economico sia sostituito dall’erogazione di competenze e considerare questo un investimento, ma quando si tratta di lavori da cui imparare poco o nulla allora questa logica non vale più».
 
Le imprese moderne dovrebbero "mostrare un'anima" puntando sulle persone, sulle comunità, sull' innovazione progettuale, economica e sociale. Cosa non funziona in molte imprese?
«La crisi economica che ci  accompagna ormai da 8 anni ha influito negativamente sull’investimento in capitale umano, in quanto la scarsità di risorse e di profitti ha indirizzato i pochi investimenti in altri settori. Penso però che questa scelta non sia lungimirante in quanto in un sistema economico e imprenditoriale, caratterizzato da grandi cambiamenti tecnologici e dell’evoluzione del ruolo dei consumatori, la vera chiave sia l’innovazione, pena il rischio di non riuscire a restare nel mercato. E l’innovazione si fa investendo sugli innovatori, che possono essere solo persone».
 


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