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United States of Ambiguity

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

17
NOV
2016
I prossimi quattro anni non saranno tutti rose e fiori: senza pensare all’impatto che il nuovo Presidente avrà sull’economia, che potrebbe anche non essere negativo (salvo poi vedere a che prezzo), ci sarebbe il sospetto di un conflitto d’interessi per i componenti della famiglia di Trump senza contare il rancore nei confronti di tutti coloro che si erano opposti alla sua candidatura 
 
 
L’8 novembre scorso, si è conclusa la tornata elettorale americana per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti, che vedeva affrontarsi Hillary Clinton, per i Democratici, e Donald Trump, per i Repubblicani.
Tipico spirito folkloristico degli States in un confronto che ha raggiunto toni anche molto accesi su politiche nazionali e internazionali, fra una delle donne più potenti del mondo, già senatrice e segretario di Stato del Governo uscente, e uno degli uomini più ricchi del pianeta, investitore immobiliare e personaggio televisivo, dai metodi diretti e molto spiccioli. Progressista democratica la prima, per quanto si possa essere in America, populista e conservatore il secondo.
La candidatura della Clinton, cognome acquisito dal coniuge Bill già Presidente degli Stati Uniti, segue a una sconfitta alle elezioni primarie del proprio partito, che vollero vincitore Barack Obama, presidente uscente, cui diede immediato sostegno per la riuscita delle elezioni presidenziali.
Proprio sulla scorta del gradimento nazionale e internazionale di Obama, anche su questioni sociali e mondiali, la candidata democratica è stata considerata come erede naturale vincente.
Contro questa visione ottimistica e all’opposto dei dati forniti dalle agenzie incaricate a compiere i sondaggi, Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali con 279 voti dei grandi elettori contro i 228 per la Clinton. Differente il voto popolare, che vede vincente la Clinton anche se per poche migliaia di voti. Trattandosi di elezioni presidenziali indirette, quest’ultimo dato è ininfluente. 
Guerrafondaio, xenofobo, omofobo, maschilista, nemico acerrimo del comunismo, delle politiche sociali, degli aiuti internazionali, Donald Trump è stato scelto per rappresentare l’America come 45° Presidente. L’uomo più inadeguato a rivestire il ruolo di Presidente degli States in questo delicato periodo di tensioni mondiali. 
Le prime reazioni all’esito elettorale sono state borse in fibrillazione e opinione pubblica mondiale sgomenta, cui ha fatto seguito la kermesse di pareri e valutazioni tecnico-politiche alla ricerca delle ragioni di questa svolta radicale. In meno di ventiquattro ore, però, le borse mondiali, escluse le asiatiche, hanno ripreso il solito andamento. Oltre agli oppositori convinti, anche il resto del mondo è tornato alla sua normalità.
Osservando da vicino il fenomeno, spicca la solenne sconfitta dei Democratici sulla vittoria dei Repubblicani. I secondi, infatti, devono il loro successo alla supponenza dei primi. Le ragioni, apparentemente inspiegabili, viste da una prospettiva differente e lontana dall’America, probabilmente non risiedono in macchinose teorie fantapolitiche e sembrano più semplici e palesi.
Confrontando i due candidati si evince che Trump ha una visione nazionalista dell’America e che crede nella rinascita del Paese solo attraverso l’esclusione del mondo esterno se non per reciproci approcci amicali ed economici. Il suo intento è chiaro: l’America è l’America e non sono ammesse ingerenze nello stile conservatore che vuole ogni cosa in un posto predestinato. Supremazia degli uomini bianchi sulle restanti etnie, donne - per definizione inferiori - al servizio degli uomini, ricchi al controllo dei poveri e stranieri fuori dai confini americani. Ognuno sottomesso al rispettivo superiore. Follia allo stato puro ma espressa con trasparenza e schiettezza.
Hillary Clinton, al contrario, ha sfoderato tutto il possibile charme per attirare gli elettori, raccogliendo un folto entourage senza precedenti, con sostenitori di spicco fra intellettuali e personaggi del mondo artistico e dello spettacolo. Una campagna elettorale pregna di principi democratici, progresso sociale, propositi di uguaglianza e tutela dei diritti del popolo americano. 
Fra i due sembrerebbero evidenti profonde differenze assolutamente inconciliabili. Nella realtà, il concetto di democrazia in America è molto differente dalla forma di governo che noi intendiamo. Le aspirazioni dei Democratici non sono così opposte a quelle dei Repubblicani. Hillary Clinton non rappresenta realmente le necessità di circa 300 milioni di americani, bensì di poche centinaia di migliaia, scelti fra l’elite dei privilegiati. Nella realtà, è così che funziona la democrazia americana. Un’oligarchia “radical chic” che esercita il suo potere nei confronti della popolazione statunitense e il resto del mondo, ostentando supremazia e superiorità, tanto da non nascondere atteggiamenti espansionistici che, al contrario, poco interessano i Repubblicani. La democrazia reale è, invece, centellinata attraverso piccole riforme a favore delle fasce sociali più deboli e verso la “middle class”, la media borghesia che, anche essendo la principale vittima della crisi economica, è il vero provento degli States. Il continente delle opportunità è governato da equilibri sociali fragilissimi che seppur permettano una scalata veloce, determinano un altrettanto rapido tracollo. Ferme la stabilità e la salvezza delle lobbies economiche multinazionali.
Questo, però, gli americani devono averlo compreso sino in fondo tanto da decidere una radicale svolta, anche se questa scelta potrebbe portarli a una condizione di ulteriore sottomissione. Quello democratico americano è un meccanismo di selezione che ha finito per fagocitare i suoi stessi creatori.
Come nei maggiori momenti storici di crisi, il popolo si è votato a un’entità superiore, sacra o profana che fosse. La storia insegna che il popolo, all’apice delle peggiori condizioni di svantaggio e nel massimo stato di sconforto, ha affidato il proprio destino al leader che gli si è rivolto direttamente, anche a fronte di notevoli sacrifici umani. Un colloquio diretto fra potere e popolo dove, quest’ultimo ha avuto un ruolo e una partecipazione tale da sembrare indipendenza. E’ la storia dei più grandi imperi del passato e delle dittature del secolo scorso. Così come negli U.S.A., molti stati occidentali palesano e promettono democrazia senza realmente dispensarla. Una deviazione delle libertà destinata a concludersi con il fallimento o, peggio, l’emersione di abili personaggi politici che riescono a ingenerare speranza e aspettative nella popolazione afflitta, conquistandone la fiducia. 
La dimostrazione è l’elezione di Donald Trump quale 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. Allo stesso modo, se gli stati europei dovessero continuare ad avvalersi di governi che favoriscono le classi sociali abbienti a spese di popolazioni sempre più povere e oppresse, il recente modello americano potrebbe essere facilmente ricalcato a favore d’individui non dissimili dal neo presidente.
Se la democrazia non è affiancata al socialismo e al benessere comune, come peraltro professato da diverse religioni, non è veramente tale. Solo attraverso la distribuzione della ricchezza mondiale è possibile l’annullamento della sperequazione che sopprime uomini per fame e malattie, mentre ne rende altri sempre più ricchi oltre qualsiasi possibile necessità.
Proprio negli ultimi giorni Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio pari a 82,1 miliardi di dollari americani, notoriamente lontano e disinteressato dalla vita politica, dopo un bilancio della sua vita, ha dichiarato che i proventi delle sue attività imprenditoriali eccedono il 95% dei suoi bisogni come quelli del suo entourage. Ha concluso asserendo che tale patrimonio è inutile se non dannoso e che, pertanto, sarà devoluto ai bisognosi.
 


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