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Progetti concreti? Non pervenuti

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

2
NOV
2017

Quando si parla di Taranto si mettono in moto gli agitatori d’aria, i professionisti del nientismo sempre pronti a dipingere prospettive avveniristiche che nulla hanno a che fare con l’hic et nunc.

E’ il caso di Michele Emiliano e della discussa foto del bambino con la maschera antigas fatta circolare sui social o del Sindaco di Taranto che sbatte i pugni sul tavolo ottenendo un appuntamento con il Ministro Calenda per parlare di cose già decise e per giunta altrove. Ma è anche il caso dei Parlamentari ionici che, comunicati stampa a parte, vanno a fare compagnia ai loro colleghi della Regione Puglia in quel cono di irrilevanza entro cui la classe dirigente della nostra città evidentemente si sente a proprio agio.
Qualche volta chi ci vede muovere l’aria ride sotto i baffi pensando che magari ciò sia utile a tenerci buoni mentre altri fanno i fatti.
Altre volte invece gli attori istituzionali sentono una irrefrenabile voglia di farci una pernacchia e la intonano di cuore: «Caro Michele Emiliano, “faremo causa”, “faremo ricorso”, ma farai anche qualcosa per risolvere i problemi? Siamo pagati per questo».
È l’irridente tweet con cui il ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda dà del fancazzista ad Emiliano dopo che quest’ultimo, a L’Aria che tira su La7, ha annunciato l’intenzione da parte della Regione Puglia di fare causa all’Ilva.
“L’Aria che si muove” più che “L’Aria che tira”, una serie infinita di stucchevoli schermaglie cui non segue nessun atto concreto.
Calenda sfotte Emiliano perché lo conosce bene ed ha potuto saggiare la forza delle sue posizioni (così come tutti gli italiani del resto) al famoso congresso del PD nel quale il Governatore pugliese organizzò la fronda anti Renzi per poi sfilarsi all’ultimo minuto lasciando i poveri Rossi e Speranza come la “zita di Pulsano”. E’ un professionista dell’armiamoci e partite.
Melucci invece è meno noto per cui, alla decisione del sindaco di Taranto di impugnare al Tar del Lazio il Dpcm approvato dal governo il 29 settembre con le misure ambientali dell’Ilva, Calenda oppone il solito ricatto economico ( il consueto “è surreale perdere così tante risorse già stanziate”) ed una convocazione in sede ministeriale finalizzata a prospettare al Sindaco, potenzialmente barricadero, qualche ben confezionata supercazzola per farlo tornare a casa da trionfatore (e perculato).
Che poi il Ministro Calenda ha ragione: perché minacciare future azioni ostili quando invece si potrebbe tacere e far parlare i fatti? Perché fare compunti e lunghissimi comunicati stampa, brigare per fare la riunioncina a Roma o ordinare la chiusura delle scuole durante i wind day a mò di atto di resistenza civile mentre invece si potrebbe fare guerra in campo aperto?
La verità è che  i problemi sono più complessi della capacità che la nostra classe dirigente ha di farvi fronte. Passano gli anni, si avvicendano gli attori ma la musica non cambia: si svaria dalle minacce televisive  alle letterine per poi arrivare alle più recenti richieste di coinvolgimento in decisioni già prese.
Il tratto comune è che non si riesce ad andare oltre i preliminari perché non si ha una precisa idea del dopo: non si ha la solidità per sostenere una battaglia con un Governo che ci prende in giro con una dozzina di decreti farsa, non si ha un piano alternativo da opporre, non si ha una visione prospettica del futuro.
Perché, dopo la fase della battaglia, dovrebbe esserci quella della proposta e su quella si ha la cifra di quanto si sia inadeguati.
Allora meglio accucciarsi sotto gli eventi dissertando di dualismo tra industria e salute, di coperture inutili dei parchi minerari, di processi partecipativi, di recriminazioni fatte sul piccolo cabotaggio quotidiano, di “si dovrebbe”, di volani, di “si potrebbe”, di potenzialità enogastronomiche.
Abbiamo una serie inenarrabile di criticità: avete mai sentito la classe politica tarantina esprimersi sul come andrebbero risolte? Avete mai sentito gli esponenti della classe dirigente locale esprimere una idea precisa di futuro ed un cronoprogramma delle cose da fare? Quali sono le priorità? Come si va oltre il “si dovrebbe”, “si potrebbe”? Come immaginate la Taranto di domani e come si realizzano in concreto i progetti? Buio pesto. Vuoto cosmico. Sguardo della mucca che guarda il treno passare.
Genova ha smantellato l’area a caldo, Bagnoli ha chiuso i battenti del siderurgico, in Germania hanno puntato sull’innovazione tecnologica e noi che idea abbiamo? Cosa vogliamo fare da grandi e come?
Solo pensierini sparsi per cavalcare l’attualità più misera: oggi strilliamo di aeroporto, domani di porto, dopodomani di ambiente, poi di risorse del mare raccattando così quello che la misera giornata ci offre come fossimo mendicanti delle idee, parolai incapaci di fare altro se non vivere come viene, senza uno straccio di strategia per il futuro.
Questo prescindendo dagli attori del momento: non è colpa di Rinaldo Melucci o di Michele Emiliano ma del brodo nel quale viviamo che, gorgogliando, oggi fa emergere un attore inadeguato e domani ne fa emergere un altro.
La disperazione genera lo spontaneismo e lo spontaneismo ci fa andare in ordine sparso immaginando ognuno una propria exit strategy come se futuro non significasse convogliare le energie collettive verso un obiettivo comune e preciso oltretutto indicato da una elite in grado di condurre verso il domani.
Ed in questo quadro di disperazione anche una corsa campestre bella, partecipata, ben organizzata, capace di evocare un brand suggestivo e della quale non si può che dire tutto il bene possibile, finisce con l’apparire per alcuni tarantini un’ancora di salvezza da ostentare in mezzo a cori trionfalistici.
Sacrilegio verso la madrepatria Sparta? Può darsi. Vorrà dire che sopporteremo la collera degli Dei oltre che gli strali dei nuovi Spartani armati di elmo e lancia che ci aspetteranno sotto casa per sfidarci a duello.
Siamo ben consapevoli che un’affermazione del genere esponga il fianco a critiche feroci ma nessuno ha intenzione di sminuire alcunché. Parimenti ci aspetteremmo che nessuno equivocasse queste riflessioni per puro amore di polemica.
Siamo però convinti che iniziative del genere fungano da volano verso un processo di diversificazione e di emancipazione dalla monocultura industriale ma parimenti reputiamo questo bel  progetto – come del resto molti altri -  come un impulso da  ridimensionare a parte di un tutto molto più complesso, simbolico pezzo di un equilibrio fatto di fumo ed arrosto mixati nelle giuste proporzioni.
Altrimenti diventa sogno, disperazione, utopia. Diventa una schedina che non uscirà mai attesa speranzosi in un bar davanti ad un bicchiere. E di quello non si campa.

 



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