MENU

Cronache di un connesso viaggiatore/Addio Alfie, doveva andare così

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

3
MAG
2018

Anche la sete di giudizio e di conoscenza deve trovare un limite, un pudore che ci ricordi che non siamo divinità, che di fronte a certi drammi occorre fermarsi, tacere, non diventare ultras

La comune assenza del pudore
Per molti, per troppi, è stato “il piccolo Alfie”. Alfie Evans, un bimbo inglese di 23 mesi, morto alle 3.30 del 28 aprile 2018, nei giorni che hanno preceduto la sua tragica scomparsa è diventato solo “il piccolo Alfie”. Qualcuno variava espressione, parlando di “povero” Alfie, ma la sostanza non cambia. Il dramma di questo bimbo, affetto da una gravissima malattia neurodegenerativa, ha colpito moltissime persone in tutto il mondo e ha riproposto dilemmi assai importanti per una società avanzata, che vanno dal diritto alla vita a quello alla cura. Temi fondamentali, su cui moltissimo si è scritto e si scriverà.  C’è però un altro aspetto della storia che però merita di essere attenzionato: Alfie Evans è divenuto, suo malgrado, un simbolo. Si tratta di un meccanismo per certi versi inevitabile, nella società contemporanea, in cui miliardi di persone possono concentrarsi su una notizia e farla diventare, quasi istantaneamente, oggetto di un dibattito globale.
C’è un legame sottile tra la simbologia del dolore e della morte e i processi di rimozione che portano un numero immenso di individui a lanciarsi in manifestazioni di empatia compulsiva, spesso priva del necessario distacco, del pudore, che si dovrebbe riservare a simili tragedie. La perdita dell’individualità è il primo effetto dell’abbattimento di questo pudore. Il simbolo non è più una persona, non ha un nome e un cognome, ma solo il nome. Il nome diventa messaggio, immagine, che rimanda alla tragedia ed al dibattito che si scatena intorno ad essa, con l’effetto di travolgere tutto: verità, razionalità, compostezza.
Il caso di Alfie Evans presenta tutti i connotati utili a descrivere l’isterica empatia di maniera che caratterizza la nostra civiltà. Al grido di “assassini, assassini”, folle di individui si sono lanciati contro ciò che stava accadendo in Inghilterra, patria del bimbo malato, invocando una crociata della vita, mettendo sul banco degli imputati i giudici, mostri senza cuore, spietati, decisi a provocare la morte di un bambino.
Naturalmente tutto ciò è molto doloroso e non coglie affatto la verità. Alfie Evans presentava condizioni cliniche incompatibili con il concetto di “cura”. La progressiva degenerazione del suo cervello, distrutto da questa misteriosa malattia, non lasciava speranza alcuna a miglioramenti o a ripresa di piene funzionalità vitali. Già, la speranza. La speranza che mantenere in vita Alfie Evans, continuando a somministrargli acqua, cibo e assistendo la sua respirazione, potesse servire a salvarlo. Entriamo qui nel territorio impervio dell’impossibile, con tutte le sue orribili, possibili declinazioni. Alfie Evans non poteva “guarire”. Questo è ciò che la scienza, empiricamente, stabilisce in casi come il suo. Alfie Evans però, tra tre o quattro anni, sarebbe potuto guarire. Questo è ciò che una visione dell’esistenza “metascientifica” non consente di escludere.
Quale forma di scavalcamento del pudore consente di relegare il miracoloso, l’inspiegabile o l’imponderabile nel regno dell’impossibilità? Allo stesso tempo, quanto pudore ci vuole per ipotizzare che un cervello che non mostra segnali di coscienza abbia comunque consentito ad Alfie Evans, nei suoi ultimi giorni di vita, di mantenere una parte delle sue sensazioni?
Nessuno ha i dadi, nell’ambito di ciò che scavalca la nostra esperienza sensibile. Non siamo noi gli “admin” della vita e della morte. Non sappiamo cosa avviene nei luoghi del corpo e della mente in cui non possiamo gettare lo sguardo. Tutto ciò che sappiamo è che ci fidiamo della scienza più di ogni altra cosa, perché nei secoli essa ha dimostrato di essere in grado di funzionare meglio di ogni altra cosa. Per questo Alfie Evans non può diventare oggetto di campagne che immaginano l’inimmaginabile. Anche la sete di giudizio e di conoscenza deve trovare un limite, un pudore che ci ricordi che non siamo divinità, che di fronte a certi drammi occorre fermarsi, tacere, non diventare ultras.
Ciò che sappiamo è che Alfie Evans era un bimbo che si è gravemente ammalato, che è stato curato e poi assistito fin quando era possibile, e che è morto, perché purtroppo, nonostante a volte si faccia di tutto per rimuovere e respingere questa evidenza, anche i bambini possono ammalarsi e morire.


 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor