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Con il senno di poi/Ricordate questi occhi

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

19
LUG
2018

Di fronte agli occhi scioccati e scioccanti di Josefa, la donna camerunense salvata dalla Ong Proactiva Open Arms dopo essere rimasta per 48 ore aggrappata a un relitto accanto ai corpi senza vita di un’altra donna e di un bambino, si sono affacciati sui social commenti come: "e gli occhi degli italiani?"; "perché non pensiamo agli occhi degli italiani?".
Al cospetto di tutto quel dolore, in tanti anziché scegliere il silenzio, hanno ritenuto legittimo farne ancora una volta una questione di razza e di cittadinanza e ciò non sembra più motivabile solo con la grettezza, il tifo politico o l'ignoranza.
Ogni tragedia ha la medesima dignità, sia che colpisca una sola persona che un intero popolo. È doveroso ricordare le sofferenze, ad esempio, delle vittime dei terremoti in Italia, che hanno perduto i loro cari e i frutti delle fatiche di un'intera esistenza, o degli esodati che si sono tolti la vita non riuscendo più a intravederne una possibile, ma quello che resta inquietante e non più giustificabile è il tirarli in causa subito dopo la diffusione della foto di Josefa.
Perché contrapporli istantaneamente, come in una sorta di gioco infantile dello "specchio riflesso", alla tragedia di quella donna appena recuperata, perché farne subito una squallida questione etnica?
Perché la vicenda dei ragazzini thailandesi intrappolati nella grotta ha suscitato, come è giusto che sia, tanta empatia e partecipazione in tutto il mondo e i migranti che si aggrappano alla vita nel Mediterraneo, di cui Josefa è un simbolo, sono invece perpepiti con rabbia, rancore o, nella migliore delle ipotesi, con indifferenza? Prosaicamente, perché non ci chiedono di mangiare alla nostra tavola, perché non sono poveri disperati percepiti solo come un peso, un costo.
Sia chiaro: è legittimo ritenere che non ci siano le condizioni per integrare moltitudini di persone in fuga a cui l'Italia non è in grado di offrire una vita dignitosa. Altra cosa è ritenere giusto abbandonarli in mare, esultare se restano per giorni in balia del sole cocente e dei flutti purché non sbarchino nei nostri porti, gridare alla fake news di fronte alle foto autentiche dei bambini annegati, augurarsi che marciscano nei lager libici e farli diventare il parafulmine di ogni frustrazione o sofferenza nazionale e personale. Diventare spietati non è la soluzione.
I social network avvallano e favoriscono quello che sembra un gioco dialettico in cui sfogare l'aggressività o un meccanismo di negazione automatica di ciò che crea un qualche disagio emotivo. In verità è da augurarsi che si tratti di questo, piuttosto che non di un massivo e grave cambiamento culturale del nostro Paese.



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