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LA REPUBBLICA TRA IONESCO E IBSEN

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

4
OTT
2013
A quanti di Voi lettori avete la compiacenza, e la pazienza, di leggermi non sarà certo sfuggito che da circa due mesi non scrivo più di politica. Il motivo è relativamente semplice. Parlare di politica nel nostro Paese non è difficile, è semplicemente inutile. I politici italiani, e tutta la corte dei miracoli che gira loro intorno, si preoccupano di fare unicamente sfoggio di sterile retorica, peraltro di infimo livello culturale e contenutistico che offende l’accostamento ai grandi retori greci e latini dell’età classica. Il dato di fatto inconfutabile è che da venti anni a questa parte il Paese reale è stato abbandonato a se stesso, non è mai stato governato, lasciato in una sorta di involontaria sperimentazione anarchica in cui ogni cittadino, cercando di fare slalom tra le migliaia di cavillose leggi che lo affliggono, ha dovuto pensare alla propria sopravvivenza contribuendo, in questo modo, alla sopravvivenza stessa della Nazione. Certo tra grandi difficoltà, certo tra indicibili sofferenze, certo con decine e decine di vittime che non hanno retto il peso dell’ostracismo dello Stato e della solitudine, ma il Paese è ancora vivo, magari in ginocchio, ma vivo nonostante la politica ed i politici. E questo dato di fatto mi porta a rafforzare la convinzione, che nutro da lungo tempo, per la quale i cittadini sono di molto migliori della classe politica che dovrebbe governarli. E allora parlare di politica, dell’arte di governare la cosa pubblica, pensando unicamente al benessere dei bambini, delle donne e degli uomini di questo lembo di Terra è surreale come potrebbe esserlo un film di Jodorowski o di Bunuel. In questo scenario, che possiamo tranquillamente definire da Day Aflter, ancora oggi il Deus ex machina è un signore di 77 anni che si chiama Silvio Berlusconi. Non ho alcuna reticenza a dichiarare che nel 1994 sono stato uno dei milioni di miei connazionali che ha contribuito con il suo voto, anche se indiretto, all’affermazione del Cavaliere. Così come nel 1996, mentre nel 2001 gli ho concesso la mia personale ultima chance. D’altro canto quali erano le alternative di quegli anni? La gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto? L’indigesto ragù alla bolognese di Romano Prodi? La decadente estate romana di Francesco Rutelli? La parabola ventennale del signore di Arcore non è stata garantita da un regime dittatoriale imposto con la forza delle armi ma si è autoalimentata della incapacità progettuale e delle inconsistenti leadership di tutte le opposizioni che si sono succedute. Anche oggi il panorama è asfittico: Niki Vendola e la sua sinistra che rinchiudono la loro visione del Paese nell’ottica angusta della tutela dei diritti di certe minoranze e delle diversità di genere; Beppe Grillo, con il suo penta stellato movimento, al quale bisognerebbe ricordare che il suo pensiero politico, se mai ne abbia avuto uno, va ripulito dal turpiloquio e dalle intemperanze istrioniche più adeguate al proscenio dell’Ambra Jovinelli degli anni quaranta piuttosto che alle sedi istituzionali; Mario Monti e Scelta Civica rispecchiano il triste e anonimo loden del leader; e infine, la nuova balena bianco rossa, che di quella bianca d’altri tempi non ha ereditato la forza morale ed aggregatrice delle varie anime del Paese, ma ha mutuato lo stillicidio di correnti interne, eccentriche tra loro, che scoraggiano anche i più accaniti sostenitori. Ciò non dimeno oggi è giunto inevitabilmente al capolinea il frecciarossa berlusconiano. Prenda atto che, indipendentemente dal voto del Senato, dalla Corte d’Appello di Milano arriverà l’interdizione dai pubblici uffici e, conseguentemente, l’ineleggibilità alle prossime elezioni e la questione non sarà più politica ma semplicemente giuridica. Ma a quanti, politici, magistrati, intellettuali, giornalisti, opinionisti, comici e ballerine stapperanno bottiglie di champagne per la fine del “tiranno”, vorrei dire che hanno poco da festeggiare perché il ventennio berlusconiano ha riconosciuto in loro, e nella loro pochezza morale ed etica, i suoi genitori naturali.
 


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