MENU

GENOVA PER NOI…

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

17
OTT
2014
“Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che abbiamo visto Genova, che ben sicuri mai non siamo che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più.”
Così l’astigiano Paolo Conte ha sempre visto Genova, antivedendo ciò che oggi, così come tre anni fa, è l’immagine di una città martoriata non tanto, e non solo, dalla furia degli elementi naturali quanto, e soprattutto, dall’incuria colpevole e reiterata degli uomini. Ma parlare in generale di irresponsabilità degli uomini sarebbe ingeneroso nei confronti delle migliaia di persone che sono rimaste vittime innocenti della tragedia che si è consumata. Quando parlo di incuria e irresponsabilità degli uomini mi riferisco esplicitamente a tutti quei cialtroni che, nel corso di lunghi anni e di drammi che si sono consumati immutati e immutabili, hanno occupato le poltrone che contano ed hanno usato e abusato delle leve del potere senza fare nulla per rimediare ad una situazione di degrado idrogeologico conosciuto e ripetutamente denunciato. Parlo di sindaci, presidenti di provincia e regione, di boiardi di Stato potentissimi in Liguria (Scajola vi dice qualcosa?), di responsabili della Protezione civile senza dimenticarsi di magistrati e di Tar che hanno contribuito in vario grado e misura a sollevare polveroni con l’unico risultato di lasciare tutto immutato e trascinare migliaia di cittadini nella disperazione, in un rimpallo di responsabilità che è sport nazionale. E mai nessuno che paghi per i propri errori perché a pagare è sempre la gente comune, quella che non ha santi in paradiso, quella che non ha tutele e privilegi, quella che viene tenuta alla stregua dei servi della gleba, di quella gente che come tutti noi deve sbattersi ogni giorno con il proprio lavoro per sopravvivere. Parlo di quanto è successo a Genova con la rabbia che mi viene nell’assistere impotente a tanta distruzione e tanta disperazione, ma anche con il dolore che provo nel vedere così deturpata, ripeto colpevolmente, una città che amo visceralmente. Genova è una città di forti contrasti, come si solito sono le città di mare, e come tale non tollera le mezze misure: la si ama o la si detesta. Il mio è un amore incondizionato per i suoi caruggi e per i suoi sfarzosi palazzi, per la Cattedrale di San Lorenzo e per il Carlo Alberto ristrutturato, per la Lanterna, per il suo porto e per il suo entroterra selvaggio, per la focaccia e per i pansotti al sugo di noci, per i colori meravigliosi delle maglie delle sue squadre di calcio, per Gilberto Govi e per Fabrizio De Andrè, per Gino Paoli e per Bruno Lauzi, per la sua gente coriacea e testarda, arguta e satirica, accogliente e leale. Questa città e la sua gente è stata lasciata sola a vivere il proprio dramma da uno Stato che non è più in grado di soccorrere i propri cittadini in difficoltà. Da soli i genovesi si sono rimboccati le maniche, ingoiando le lacrime di dolore, e con il solo aiuto di migliaia di giovani volontari, ragazzi la cui generosità è pari solo al loro senso di solidarietà. Dove sono le istituzioni? Sono solleciti solo a presentarsi dinanzi alle telecamere per scaricarsi le responsabilità gli uni sugli altri, mentre la loro coscienza rimane sporca senza se e senza ma. Dov’è il capo del governo, sempre pronto a presenziare in occasione di taglio di nastri, di inaugurazioni di opere nelle quali non ha alcun merito, a passeggiare impettito al fianco dei capi di stato esteri, a sproloquiare di un’Italia che esiste solo nella sua immaginazione malata di protagonismo? Si è guardato bene dal farsi vedere dalle parti di Marassi non fosse altro che per portare la solidarietà della nazione. No, ha preferito le comode poltrone del congresso di Confindustria. Una prova di vigliaccheria che se fosse accaduta negli Stati Uniti sarebbe stata stigmatizzata di ignominia dall’opinione pubblica. Ma noi italiani siamo di altra pasta e ci meritiamo, in queste circostanze, i Matteo Renzi di turno. Per i Genovesi e per tutti quelli che la amano chiudo con una strofa di una delle più struggenti canzoni dialettali resa famosa da Govi. “Ma se ghe penso alloa mi veddo o mà, veddo i mae monti e a ciassa de Nunsia, riveddo o Righi e me s’astrenze o cheu, veddo a lanterna, a cava, lazu o meu. Riveddo a a seja Zena inluminaa, veddo la a Foxe e sento franze o mà e alloa mi penso ancon de ritornà a posà e osse dove’ho’ mae madonnaa”
 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor