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Dopo Brexit/L'Europa che verrà

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

30
GIU
2016
Cosa succederebbe se altri Stati decidessero di intraprendere un cammino simile a quello britannico? Il rischio di emulazione del Regno Unito è concreto così come i rigurgiti nazionalisti: non sarà facile evitarli proseguendo con le scelte di una Comunità Europea fortemente condizionata
 
Il 23 giugno 2016 è una data che sarà ricordata nel tempo. Forse troverà posto nei libri di storia.
Attraverso un referendum, il Regno Unito ha cessato di appartenere all’Unione Europea.
Unione Europea. Unione politica ed economica di 28 paesi membri del continente europeo, indipendenti e democratici.
Il 7 febbraio 1992, con il trattato di Maastricht, gli stati aderenti alla Comunità Europea hanno concluso un lungo cammino, carico di aspirazioni e speranze, confluendo nell’Unione Europea, alla quale, successivamente, sono state annesse altre nazioni.
Unione, armonia, solidarietà, accordo. Il sogno, la meta e l’ambizione di tutto il mondo civile.
L’unione di popoli con profonde differenze sociali, etniche, storiche, che sinergicamente costruiscono il benessere comune. L’apice delle civiltà moderne.
Non farò un’analisi dei motivi e delle ragioni che hanno indotto il Regno Unito a lasciare l’UE e di quanto accadrà ai rimanenti stati membri. Tecnicismi che lascio volentieri agli economisti.
Voglio, invece, descrivere gli sviluppi sociali che l’UE induce sui popoli dell’Europa.
Affinché una così variegata combinazione di stati possa convivere felicemente, il primo e indispensabile requisito è l’uguaglianza. Una forma di socialismo carico di tolleranza perfino per le diverse religioni presenti in Europa. Nessuna prevaricazione economica e sociale né fra stati, né fra cittadini comunitari, con lo sguardo rivolto a civili e amichevoli rapporti con le restanti popolazioni mondiali. La mutua assistenza fra popoli per raggiungere il bene comune.
L’Unione Europea è davvero questo?
La risposta varia enormemente in funzione della prospettiva che si osserva. Se il punto di vista è politico ed economico, l’Unione Europea sta seguendo un percorso positivo ricalcando schemi matematici precisi che porteranno a un sicuro successo così come per un’azienda. Secondo l’ottica dei cittadini comunitari non sembra esattamente essere così. Perché i cittadini europei non sono un’azienda.
I nazionalisti ritengono l’Unione, un’inconciliabile condivisione di popoli incompatibili che, permanendo, aumenterebbe ulteriormente le divisioni già presenti. Ma non lo asseriscono ispirati dal villaggio globale di Marshall McLuhan, bensì seguendo un temibile riacutizzarsi di sentimenti nazionalsocialisti che serpeggiano proprio in Europa.
L’Europa, in realtà, è governata da poteri economici che trovano la massima espressione nelle banche a servizio del peggiore capitalismo degli ultimi due secoli. Intorno ad essa, vi è un’orbita tracciata da governi membri, sempre più sudditi, che si allontanano progressivamente dai principi attuatori dell’UE e dalla democrazia.
Vittime involontarie e inconsapevoli sono i popoli. Soprattutto quelli che sono entrati nella Comunità Europea con forti ambizioni ma scarsi mezzi. L’Italia ne è un esempio.
Chi ha governato l’UE, non ha mai avuto grande stima e rispetto per i cittadini comunitari, presumendo di detenere la corretta formula per gestirne la vita. Ha scordato la storia, le tradizioni, gli usi che ogni comunità custodisce da millenni. Ha pensato e pensa di emulare gli Stati Uniti di America. Un popolo, intraprendente ma senza storia e umanità, con il quale si può essere profondamente amici ma mai uguali.
E’ sempre mancata la considerazione per le radici etniche.
La più importante sede del parlamento europeo è a Bruxelles in Belgio. Uno stato sorretto da una monarchia costituzionale che deve le sue notevoli ricchezze alla schiavitù e allo sfruttamento dell’Africa anche se, ufficialmente ha liberato il Congo dall’oppressione dei trafficanti arabi. Potrebbe sembrare una scelta dettata dalla centralità geografica della nazione ma optandovi, non si è avuta nessuna considerazione per i legami che uniscono, positivamente o negativamente, i popoli del Bacino Mediterraneo che condividono storia e vicende, influenzandosi vicendevolmente.
L’insoddisfazione della popolazione europea deriva dalla concreta mancanza di relazione con il governo centrale, che delega i governi membri alla gestione delle ricadute economiche e, quindi, delle misure finanziarie di supporto, ignorando le proposte dei cittadini comunitari e riconducendo il tutto a meri bilanci distanti dalle realtà locali.
Altra cosa fortemente penalizzante è l’atteggiamento tardivo assunto dall’UE in merito ai flussi migratori. La Germania, anche se non palesemente, imputa ai restanti stati europei la mancanza di sostegno dal giorno successivo alla caduta del Muro di Berlino. Un enorme flusso di migranti provenienti dall’est europeo invase la Germania che dovette affrontare autonomamente un’inaspettata emergenza. Questo la induce a minimizzare le evidenze migratorie laddove non sia direttamente interessata.
Di fatto, la Germania prevarica sugli stati membri dell’Unione Europea imponendo politiche economiche e sul lavoro assolutamente inadatte alle realtà di paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo.
Se ai tedeschi deve essere riconosciuta la razionalità di non varare mai un progetto o un prodotto se non attentamente verificato e collaudato, anche a costo di ritardare l'innovazione, di contro deficitano d’indole artistica, creatività e senso pratico, tipiche caratteristiche, invece, prettamente mediterranee. Inoltre, in Germania, vi sono diffusi sentimenti nazionalistici e ostentata superiorità rispetto alle restanti popolazioni europee.
La ricaduta negativa di una rigida politica fatta di numeri si traduce in seguiti capitalistici che male si adattano alla grave crisi economica che ha investito l’intero pianeta.
La realtà ha indotto un aumento delle famiglie che vive sotto la soglia di povertà e di quelle che la lambiscono, con un parallelo incremento di ricchezza delle storiche generazioni industriali, ben disposte nei confronti degli investitori stranieri, tanto rampanti quanto privi di scrupoli.
Questo binomio assomiglia sempre più a una relazione indotta piuttosto che a una fase intermedia del target economico europeo.
Il settore primario è, così, disciplinato da logiche che vertono all’estinzione dei prodotti d’eccellenza tipici delle diverse regioni europee. È adottata, al contrario, eccessiva benevolenza nell’ambito degli scambi e del commercio internazionale, a scapito della qualità e in nome di principi e leggi risalenti all’inizio del ‘900.
Sebbene lo sguardo comunitario sia proiettato all’innovazione e al rispetto per l’ambiente, nel settore secondario, l’UE lascia irrisolti annosi problemi legati alle produzioni altamente inquinanti e fondamentalmente anacronistiche, come nel caso dell’ILVA che, indisturbata, continua a mietere vittime e produrre in eccesso. Le banche e i grandi investitori controllano la fetta preminente di questo settore economico, condizionandone sviluppi e reali necessità.
Il settore terziario è in parte assoggettato a una pressante fiscalità, stranamente accondiscendente con le grandi realtà ma inesorabile con il piccolo e medio commercio, destinati all’estinzione. I servizi tendono a peggiorare notevolmente proprio per l’assenza di controllo capillare che, al contrario, la Comunità Europea dovrebbe praticare costantemente sull’intero territorio, con metodo equo e univoco. I tagli alla spesa pubblica ricadono notevolmente sulla popolazione, che è privata dei diritti più elementari quali la sanità.
Così anche per il terziario avanzato, quello della cultura, dello spettacolo, dell’informazione e della comunicazione. L’ambito risente notevolmente del taglio di fondi. Sovente è gestito con forte sacrificio degli operatori, o da grandi imprenditori che spingono all’oligopolio riducendone il senso sociale.
Lo strapotere delle banche si traduce in un difficilissimo accesso al credito. Le banche dei vari stati dell’Unione, distorcendo le indicazioni dettate da Basilea2, concedono credito solo a chi ha liquidità di denaro o a chi detiene un rating elevato, negandolo o rendendolo, in concreto, inaccessibile alle micro, piccole e medie imprese, già allo strenuo.
Queste, sono le stesse istituzioni che attingono prestiti dalla BCE a tassi bassissimi, adoperandoli poi per aumentare il loro potere contrattuale.
Accedere ai finanziamenti comunitari è, per i più, improbabile. Contro i finanziamenti del passato, elargiti con largo spettro senza che se ne verificasse il reale fabbisogno, oggi si demanda agli enti locali e alle banche, la gestione delle misure comunitarie con metodi discrezionali e restrittivi. Questo si traduce in misure che appaiono scritte per beneficiari finali prestabiliti, accrescendone il potere economico a discapito delle nuove realtà. Sostanzialmente, chi avrebbe bisogno di sostegno economico ne rimane privo e, al contrario, continuano a sorgere altre “cattedrali nel deserto” seguite dalla delocalizzazione della produzione nei paesi dell’Est.
Il potere di acquisto dell’euro, a fronte di queste scelte politiche, si è ridotto a un terzo di quello della divisa originaria.
La Troika alletta con prestiti di soccorso gli stati membri in gravi difficoltà o in default. Tassi d’interesse altissimi e condizioni vessatorie costringono i beneficiari a subire qualsiasi provvedimento e, di fatto, ne assoggettano il voto in parlamento.
Il rischio di emulazione del Regno Unito è concreto così come i rigurgiti nazionalisti; non sarà facile evitarli proseguendo con le scelte che la Comunità Europea persegue, fortemente condizionata, inoltre, dalla Germania che, se perdesse autorità, attuerebbe ciò che già nutre in pectore: il nazionalismo come alternativa allo statuto comunitario, con evidenti seguiti discriminatori.
L’UE, come creata e desiderata, sarebbe stata il più bel progetto della storia occidentale, solo se fosse stata gestita dagli europei e non dalle banche e dal capitalismo mondiale.
Non si può scrivere il futuro della Comunità Europea rinnegandone il passato.
 


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