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GIUSTIZIA, DIRITTO E MAGISTRATURA

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

6
SET
2013
“Iuris praecepta sunt: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere” (Le regole del diritto sono: vivere onestamente, non nuocere ad alcuno, riconoscere a ciascuno il suo.)
Da alcuni decenni nel nostro Paese si fa un gran parlare, spesso a sproposito, dei “mali della giustizia” mischiando in un unico calderone i temi della giustizia, del diritto e della magistratura che, sebbene complementari, necessitano di una trattazione diversificata per il differente grado di inefficienze che si portano dietro. E come dire che durante un sontuoso banchetto, per ogni tipo di portata, ci viene servito indistintamente mischiato vino bianco, rosso e rosato perché comunque sempre di vino si tratta.
Per tentare di restituire un po’ di dignità e di verità storica al reale significato dei tre sostantivi è necessario chiedere aiuto alla nostra lingua madre. La parola giustizia deriva dal latino iustus, che significa giusto. Cicerone ci spiega che “la giustizia è uno stato morale, viene osservata per l’utilità di tutti e di ognuno e che attribuisce ad ognuno la propria dignità”. La parola diritto, intesa come sostantivo, deriva dal latino dirèctum, che significa ciò che è retto, giusto, il che ci riconduce al concetto di giustizia, la legge o il complesso di leggi che ha la facoltà riconosciuta di obbligare o di impedire. Su questo fondamento si edifica il Diritto Romano che ha costituito l’ordinamento giuridico del mondo conosciuto per tredici secoli (dal 753 a.C. al 565 d.C.) e che oggi è alla base di tutti i sistemi giuridici contemporanei. Infine il termine magistratura si fa risalire al magistratus del diritto romano ed è connesso al verbo magisterare, governare e a sua volta etimologicamente al magister, maestro, capo. Contrariamente a quanto accade in Italia, con riferimento agli ordinamenti del passato, il magistrato designa un titolare di pubblico ufficio per lo più elettivo e di durata limitata nel tempo. Così come accade negli ordinamenti di common low (generalmente i paesi anglosassoni!). Se è incontrovertibile questa diversificazione del significato intrinseco dei termini, non vedo come si possa parlare genericamente di “mali della giustizia” e di “riforma della giustizia” come fanno di continuo molti “nobili pennivendoli” del giornalismo nostrano e molti decadenti signori della politica nazionale. A meno che non si vogliano ridisegnare completamente i principi giuridici ed il complesso delle leggi che formano il diritto, fonte della nostra millenaria civiltà giuridica, la vera e sola riforma di cui ha necessità il nostro Paese riguarda il variegato, e fantasioso, mondo dei magistrati. Allora parliamo più correttamente di riforma della Magistratura che rappresenta il vulnus, la vessata questio irrisolta della nostra architettura costituzionale ed istituzionale. La madre di tutti gli orrori (giuridici ovviamente) di cui si è macchiata, e continua a macchiarsi, la magistratura italiana sta tutta nella indeterminatezza dei ruoli al suo interno che confluiscono nello stesso mare magno lobbistico, incontrollato ed incontrollabile. È l’unico dei poteri dello Stato che, abusando della propria autonomia, risponde solo a se stesso là dove controllore e controllato sono gemelli unicellulari. Siamo il solo paese occidentale che prevede l’osmosi assoluta tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, ed insieme rispondono del proprio operato ad un loro organismo che si chiama Consiglio Superiore della Magistratura. Da questo si evince, senza ricorso a sofismi, che il vero problema non sono le leggi che fondano i principi giuridici di una giustizia giusta ma l’amministrazione e l’applicazione di dette leggi, compito che dovrebbe essere svolto dai magistrati. Ma fino a quando il pubblico accusatore, che dovrebbe agire nel nome del popolo senza che lo stesso lo abbia mai investito direttamente di questo ruolo, detiene lo stesso status del magistrato giudicante, che per definizione dovrebbe essere terzo rispetto ad accusa e difesa, è palese lo squilibrio tra i protagonisti del procedimento processuale. A latere di questa macroscopica anomalia vi sono una serie infinita di comportamenti irregolari che, se anche non sfociano direttamente nell’illecita pratica della funzione primaria, ne minano fortemente la credibilità. I magistrati devono attenersi rigorosamente al principio della riservatezza, ma quotidianamente leggiamo esternazioni a mezzo stampa e televisione che si addicono più a frequentatori del bar dello sport piuttosto che alla dignità del magistero. Ci dicono che le sentenze non si commentano ma si applicano, ma sono gli stessi magistrati che le commentano pubblicamente ancor prima che le stesse motivazioni vengano rese pubbliche. I magistrati dovrebbero astenersi dal manifestare pubblicamente le loro convinzioni politiche, per altro legittime come privati cittadini, eppure i loro organismi interni si dividono in vere e proprie correnti politiche che fanno politica. Per non parlare dei tanti magistrati che si dedicano attivamente alla vita politica salvo poi tornare al loro ruolo di magistrati quando, come spesso accade, vengono trombati dal corpo elettorale. Vogliamo stendere poi un velo pietoso sulla arrogante discrezionalità esercitata dai magistrati rispetto all’applicazione rigorosa delle sanzioni? Pluri omicidi per incidenti stradali provocati da accertata dipendenza da alcool e droghe che non scontano neanche un giorno di galera; stupratori seriali e aberranti pedofili che vengono rispediti ai domiciliari nelle stesse abitazioni in cui vivono le loro vittime; permessi di uscita dalle carceri per buona condotta di criminali incalliti che ne approfittano per reiterare i delitti. E pensare che nella nostra indecente classe politica c’è ancora chi strenuamente difende lo status quo. La malafede è difficile da estirpare. Amen!
 


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