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Lo zufolo magico

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

13
LUG
2012

 

Se la lingua batte dove il dente duole, il mio ottavo tentava di crescere in posizione così estrema che la lingua neanche ci arrivava. E nell’ora e mezza sotto i ferri, i neuroni giocavano come bambini durante la ricreazione, grazie a quelle benedette goccine e al colpo finale dell’anestesia: i pensieri andavano in sinapsi libera mentre  nella bocca si affollavano mani e strumenti e track frizz bizzz, rumori da manifesto futurista. Il dentista ha in comune con lo psicanalista il lettino comodo, e anche il transfert è assicurato: gli occhi sopra la mascherina si corrucciano, si concentrano, si costringono, si commuovono e tu, in quel momento poco più che un impasto d’argilla di biblica memoria, ti corrucci, ti concentri, ti costringi, ti commuovi, alla totale mercé di quel novello demiurgo in camice bianco. Nessuna costola estratta, ma solo un dente da cui non si creerà alcun Adamo e che rimarrà presumibilmente infruttuoso sia messo sotto il cuscino, sia piantato come il fagiolo magico. Chissà nell’Inghilterra dei Tudor come era difficile e doloroso dover estrarre un dente così remoto: mica un incisivo o un canino, belli impettiti e tronfi come corazzieri a cavallo durante una sfilata, no!, qui si trattava proprio di abbattere la retroguardia, forte e ben celata, stanandola dalle fosse delle trincee. Forse Enrico VIII, con tutte quelle mogli finite una peggio dell’altra, non era né cattivo né sfortunato in amore: forse aveva solo mal di denti. Non doveva essere facile soffrire in tempi in cui non esisteva anestesia e al più ci si doveva accontentare di un infuso di valeriana. Tormentato dal dolore, quel poveretto dava di matto a buona ragione e guai a chi si trovava vicino, primo ministro, valletto o coniuge che fosse: se andava bene si rischiava di essere colpiti dal primo oggetto che gli capitava sottomano, altrimenti le teste rotolavano come verdure tagliate per il soffritto. Forse, se i cerusici dell’epoca avessero avuto a disposizione un inibitore del dolore più efficace da somministrare al terribile re, almeno un paio di consiglieri e consorti si sarebbero salvati, gli inglesi non sarebbero stati protestanti, avrebbero avuto l’euro al posto delle sterline e la borghesissima Pippa Middelton non sarebbe diventata la cognata del futuro re d’Inghilterra.  
Ho imparato dunque che il dolore s’impara a gestirlo con gli strumenti giusti, cognitivi e medicamentosi. Hai voglia a tagliar teste: la bua non passa comunque.
Mancante di un dente, ma con una consapevolezza nuova e con in tasca gli antidolorifici, ho affrontato l’ultima prova che mi avrebbe portato di diritto – una volta superata – una decina di gradi in su nel mio percorso iniziatico. Tre giorni con la finestra dello studio sopra le bancarelle della fiera di San Martino.
Tutti e cinque i sensi sono andati a farsi benedire: ho visto, sentito, annusato, ascoltato cose inimmaginabili e non ho mangiato nulla, per comprensibili motivi. Sotto la mia finestra, ma proprio sotto, da una bancarella partiva la colonna sonora: tutto ciò che è stato espresso in termini musicali nella cultura occidentale, dall’Adagio di Albinoni al tema di “Titanic”, da Battisti a Mick Jagger, tutto era stato reinterpretato in un’opera omnia per zufolo e tastierone. Bosch (che non è quello dei trapani, ma è il pittore fiammingo) e Lewis Carrol (quello del Paese delle Meraviglie) avrebbero fatto a botte per essere lì e trarre ispirazione da quel groviglio di corpi cotti, di caldo, di cose, di cibo, di cacca (scusate, ma se scrivo “escrementi” mi salta la C iniziale), di cous cous e tutto ciò che viene in mente alla parola “caos”.
Ora è finito tutto, come finisce tutto e tutto comincia. Altro giro, altra corsa, altra prova, altro dente, altro.
 


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