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No, non si stava meglio

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

1
FEB
2013

 

Il fatto che ancora si stia a disquisire di come si stava meglio quando si stava peggio, tentando di classificare secondo categorie morali il fascismo, evidentemente è sintomo di una scorretta capacità metabolica del nostro passato recente. Diceva Beppe Severgnini che gli italiani sono come i pesci rossi, non riescono a serbare memoria per più di quattro secondi. In effetti, se gli ultimi vent’anni sono passati nel dimenticatoio, cancellati dalla prospettiva assolutamente fittizia di una terza repubblica, figuriamoci quanta validità abbia la nostra capacità mnemonica a coprire un arco temporale di più di settant’anni. Il fascismo, checché ne dica qualche nostalgico, non ha comportato solo la bonifica delle Paludi Pontine o la realizzazione dell’edilizia istituzionale. Per ogni Palazzo della Provincia costruito, molto altro patrimonio urbano veniva distrutto dal piccone del regime. I treni arrivavano in orario forse, ma bastava poco per scatenare le violenze squadriste: anche a non voler essere anarchici alla Malatesta o comunisti alla Gramsci, ma solo socialisti o liberali, si rischiava la “purga del sovversivo”, o peggio di rimetterci le penne o di finire al confino, che non era esattamente come soggiornare al Club Med. Catalogare un periodo come “buono” o “cattivo” tout court non ha senso; vagheggiare tempi mitici di ordine, rigore e rettitudine che non solo non ci sono più, ma che non ci sono mai stati, può rappresentare un esercizio di chiacchiera fra rimbambiti, ma nulla di più. È come dire che il Medioevo è un momento buio della storia dell’Occidente: e a furia di ripeterlo, magari i bambini a scuola immaginano davvero quei secoli senza un raggio di sole e come unico bagliore quello dei fuochi dell’Inquisizione. Sarà, ma se si è arrivati dalla Domus Aurea alla Cappella Sistina, evidentemente quell’Età di Mezzo non doveva essere poi così male.  Per riconoscere un fenomeno storico nella sua complessità, vi è una sola cosa da fare: informarsi. Non è necessario diventare un cultore della materia, basta una mezz’ora su internet o in biblioteca. E se proprio leggere non è l’attività preferita, ci si può limitare a guardare le figure: se si digita la parola “fascismo” su Google Immagini, la ricerca darà come risultato molte foto, la maggior parte delle quali di uomini in divisa –schierati, a riposo, a passeggio, ma sempre in divisa-, e qualcuna di cadaveri appesi. Qualcosa vorrà pur dire.
E mentre i politici occupano il tempo della campagna elettorale a chiedersi pruriginosamente se Mussolini fece bene o male, piuttosto che stilare intenzioni programmatiche di governo, vorrei segnalare un tema che finora ha incontrato numerose resistenze nell’opinione pubblica. Non sembri ozioso parlare di sessualità e disabili in un Paese dove i malati di Sla fanno lo sciopero della fame per vedere riconosciuti almeno i diritti basilari di sopravvivenza. Coloro che non sono normodotati conservano comunque l’esigenza di una vita affettiva ed erotica, ma finora l’argomento è stato ignorato anche dalla comunità scientifica, salvo venire alla ribalta grazie a un film, "The sessions", che racconta la storia di un disabile con una terapista sessuale, e al blog di Maximiliano Ulivieri, Loveability.it, dove si raccolgono -senza ipocrisie ma anzi con un’esuberanza da coming out- varie esperienze di persone svantaggiate fisicamente che però conservano il bisogno di un contatto emozionale e fisico. Se pensiamo che in Olanda i servizi resi dagli assistenti sessuali vengono non solo riconosciuti ma perfino rimborsati dall’Ente per la Sicurezza Sociale, ebbene, almeno cominciare a parlarne non farà male. Un lungo viaggio si comincia con un primo passo. 
 


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