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Che fare della sconfitta / "Il filo rosso" di Evelyn Zappimbulso

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

8
APR
2019

Che fare della sconfitta? Per tutti, si tratta di un’esperienza non evitabile. Anche la persona di maggior successo ogni tanto subisce il gusto amaro della sconfitta. A ben guardare si scopre che ciò che fa di qualcuno un vincitore è proprio la sua capacità di perdere, di capire per poi rialzarsi. La sconfitta, soprattutto quando arriva dopo un periodo di vittorie e successi, diventa un prezioso riequilibratore dell’umore e del senso della concretezza del soggetto, che prima tendeva a sbilanciarsi dal lato dell’euforia e dell’ottimismo, camminando nelle nuvole dei propri sogni e dimenticando di verificarli con la spessa solida realtà. Per amare la vita così com’è, con i suoi bivi e le sue messe alla prova, per mettere a frutto le esperienze di scacco che il vivere quotidiano ci offre, è necessario uscire dal mito moderno secondo il quale l’esistenza sarebbe una successione di acquisizioni, di vittorie e consensi. Teoria infida e infedele, che quando va bene ti ubriaca col successo e ti fa perdere il contatto con la tangibilità. Ma quando poi arriva l’inevitabile legnata ti precipita nello sconforto. In realtà, più che le acquisizioni e le vittorie, ciò che tempra più saldamente sono appunto gli smacchi. E’ nel confronto con quei momenti difficili che la personalità cresce davvero, sia pur traballando, e che le tentazioni del narcisismo, se si affronta la situazione con coraggio e realismo, si sciolgono una volta per tutte. E’ allora che si costruisce una vera e salda autostima, in grado di sorreggere durevolmente. Una sconfitta elaborata positivamente è molto più utile e formativa di tante terapie che rischiano di farti vedere che, in fondo, sei tu che hai ragione (il che può anche essere) impedendoti così di cambiare e di addestrarti bene per la prossima occasione. Una sconfitta amara è lo slancio di nervi al blocco di partenza. È l’elemento negativo che può fare la differenza. La negatività scandisce l’intero processo vitale, manifestandosi nelle figure del desiderio, della lotta, del lavoro. Ognuna di esse è caratterizzata dalla negazione del dato, immediato, naturale, animale. Una negazione è insieme distruzione e creazione. Solve et coagula. Staccandosi da un mondo naturale e animale, l’autocoscienza perviene ad un mondo storico e umano. Ciò che determina l’uscita dell’autocoscienza da se stessa è il desiderio di riconoscimento, che non è un desiderio puramente animale, motivato da una qualche pulsione biologica, ma è rivolto costitutivamente all’altro. Hegel scrive “L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza“.
C’è sempre qualcuno che sa perdere bene. Come riconoscerlo? E’ chi tace, inerme ed in silenzio, mentre osserva e costruisce dal lievito del tormento, senza dare colpa alcuna ai vincitori. Ripiega su stesso e fa leva sugli errori, anche altrui e si mette a pensare, cogito ergo sum, cercando incessantemente di capire. Sono donne e uomini così quelli che in futuro potranno vincere in pienezza riscoprendo il valore dello smacco amaro. Perché, tra l’assurdo e il paradosso, strettamente connesso alla sconfitta c’è il senso della vittoria. 



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