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Prendo un tortello ariano con molto ergastolo

Categoria: EDITORIALI

3
OTT
2019

Fine pena mai. Queste parole, di colore oscuro, non campeggiano al sommo di una porta, ma riecheggiano tra le fameliche fauci dell’homo captivus, sottospecie del sapiens, ancora troppo assiduo frequentatore delle cabine elettorali. In questi giorni una ex brigatista, che ha scontato la sua pena, è stata al centro dell’attenzione, perché avrebbe impunemente richiesto ed ottenuto il reddito di cittadinanza. Come spesso mi accade, da osservatore volutamente distante, cerco di mettere altro spazio tra il fango ed il fumo che ricopre i fatti e provo a ragionare, non sul caso concreto, ma in generale.

Uccido, vengo condannato, sconto vent’anni, poi esco. A quel punto dovrei essere un cittadino come tutti gli altri. La tragedia della mia vita e della vita che ho soppresso, dovrebbero aver scavato, assieme alla detenzione, un fossato di dolore e ripensamenti, di riflessioni e tormenti. Sia quel che sia, per lo Stato e per la legge, una volta terminato di pagare, dovrei essere un soggetto a cui non comminare altri pesi, o peggio, la morte civile, meglio se a causa dell’inedia.

Difficilmente troverò un buon lavoro, dopo il mio passato e comunque mi porterò sempre dietro un marchio, una colpa, che mi renderà difficile reinserirmi, provando ad essere come tutti gli altri.  Si può ben capire dunque quanto sdegno mi provochi il clamore dei captivi, che latrano a causa del pensiero che un cittadino, dopo aver subito una condanna, pretenda di sopravvivere e possibilmente di non morire di fame. Il clamore, le urla assetate di sangue, fanno capire, una volta di più, quanto il nostro paese sia lontanissimo dall’idea di Stato di diritto, solo vagheggiato nelle carte dei cerusici del Tribunale, ma davvero assente dal civismo diffuso tra i cittadini.

A fare da cassa di risonanza di questa povera vicenda ci ha pensato un altro coro di latrati, levatisi perché la curia bolognese avrebbe annunciato di preparare un po’di tortellini, piatto tipico della tradizione emiliana, con carne di pollo, anziché di maiale. La ragione? Consentire anche a chi non mangia maiale per motivi religiosi di partecipare alla mensa e condividere il pasto con altri fedeli cristiani. A seguito di questa iniziativa i puristi del porco si sono stracciati le vesti. Redivivi Caifa, hanno difeso l’intregralismo della panza con la stessa crudele sottigliezza dei farisei di duemila anni fa. Il tutto, ovviamente, nel santo nome di Gesù Cristo, notoriamente estraneo a qualsiasi forma di condivisione ed avido di pane e vino, consumato in splendida solitudine.

Il maestro Cipolla ha dedotto, con logica seducente e stringente, i guasti provocati al mondo dei giusti dalla stupidità non calcolata. Qualche filosofo all’altezza, e qui mi sottraggo all’ingrato compito, dovrebbe fornirci un saggio riveduto e corretto, che spieghi, per filo e per segno, gli effetti nefasti della cattiveria gratuita, di questa vorace assenza di umanità, che mira all’annientamento fisico dell’untore di turno, mossa da una ferocia che non sembra trovare mai pace. 



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