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Parole che contano

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

14
GIU
2013
I  DERAGLIATI
“Un ottimo esordio. Eccellente il motore della storia. Lo definirei un romanzo picaresco, molto fisico e per niente moralistico”. Sono le parole che siamo riusciti ad afferrare  durante un rapidissimo confronto con Michelangelo Zizzi che questo romanzo ha presentato nei giorni scorsi a Roma, con Fucine Letterarie. Stiamo parlando de I DERAGLIATI ,  (Italic -collana Pequod) di Alessio Caliandro, di Martina Franca, ma residente a Roma dove insegna Filosofia.  Lo sfondo sul quale si muove la schiera dei personaggi è quello della stazione Tiburtina di Roma. Mucca, Animale, Picchio, Gianni l’Accattone, Che Guevara, Mortacci tua, sono i nomi dei “deragliati”, sopravvissuti a se stessi tra alcool, droga, crisi di astinenza, follia, vagabondaggio, devianze e perversioni sessuali, angoscia esistenziale. Si tratta di esistenze vaganti, per scelta o costrizione, verso l’autodistruzione. Il libro che non è ancora arrivato in nessuna delle librerie di Martina Franca, per i noti problemi di distribuzione delle  piccole case editrici, si divide hegelianamente in tre parti: un trattato di etologia, con la messa a fuoco degli istinti primordiali e animaleschi; l’agiografia di San Luigi dei Francesi (unica fonte di salvezza) al cospetto del Sultano; infine, vi è un trattato prettamente fantastico di angelologia.  Quella del protagonista è una vita miserabile, nel corso della quale l’incontro con San Luigi dei Francesi determinerà la lotta contro i propri mali esistenziali, in un confronto finale con i propri demoni. Evidente la ricchezza culturale dell’autore, espressa dalle citazioni letterarie, filosofiche e figurative: Alessio Caliandro ha scelto, infatti, per la copertina,  un particolare della “Vocazione di San Matteo” del 1599-1600 di Caravaggio. Molti i riferimenti filosofici, a partire da Thomas Hobbes:  “La vita è un movimento incessante che, quando non può più continuare in linea retta, si trasforma in un moto circolare”, e  la teoria dell’“Homo homini lupus”, che attraversa tutta la narrazione. 
 
FINE IMPERO
Era attesissimo e finalmente è uscito, non con Einaudi, come annunciato lo scorso anno, ma con Minimum Fax.  Si tratta di Fine Impero di Giuseppe Genna, autore di numerosi romanzi, fra cui, per Mondadori, Nel nome di Ishmael, Non toccare la pelle del drago, Grande Madre Rossa, Hitler, Le teste e, per Rizzoli, lo straordinario Dies Irae, che assumendo la morte in diretta di Alfredino Rampi,  squarciò quel velo di Maya, mettendo a nudo con grande coraggio l’ipnosi collettiva operata dalla televisione. “Oro di fine impero: in quanto oro, tu sei falso”, è questa la frase lapidaria che si legge sul retro di copertina del nuovo romanzo, di Genna, “Fine Impero”, appunto, che  fa rinascere l’orgoglio per una Nazione che non brilla sul piano letterario: Genna, infatti, è  un autore che ha scandagliato con straordinaria lucidità le inquietudini della società contemporanea,  lasciando ai lettori pagine indimenticabili.  
Il padre e la madre. Una piccola bara laccata  bianca, “come una pietra tagliente al centro di metri quadri si seta tesa, dove la pietra affonda e quindi straccia.” All’interno il cadaverino di una bimba di dieci mesi. Causa della morte:  depressione neonatale. E’ questo il dramma privato del protagonista, un intellettuale che per sbarcare il lunario scrive per le riviste di moda. “Un intellettuale ordinario che sopravvive grazie alla carità di amici giornalisti. Amici, amici di amici, gente dei giornali. La bufera economica e la rivoluzione digitale  stavano facendo tremare tutto, anche me. Bore dal futuro facevano barcollare  la civiltà per come l’avevamo conosciuta in questi anni.”  Ecco: che cosa accade a quest’uomo quando perde tutto? Si congela, diventa un “calco umano, incastonato nel corpo fisico”.  Un corpo nel quale  “un torbido cuore di legno sente ma non gode tornare le stagioni.”
Negli ultimi dieci anni in Italia le immagini hanno distrutto speranze e immaginario. E’ sicuramente il canale sensoriale della vista quello più ricorrente in questo romanzo che restituisce alle parole quella potenza  che la società dell’immagine ha distrutto e fa amare come non mai la lettura.  
 
IL RAGAZZO SELVATICO
“Qualche anno fa ho avuto un inverno difficile. Ora non mi pare importante ricordare l’origine di quel male. Avevo trent’anni e mi sentivo senza forze, sperduto e sfiduciato come quando un’impresa in cui hai creduto finisce miseramente.”
Si tratta dell’incipit de “Il ragazzo selvatico” di Paolo Cognetti (Terre di Mezzo), in corsa per entrare nella cinquina dello Strega. Si tratta di un romanzo autobiografico:  la storia vera di una fuga in montagna e di un viaggio per ritrovare se stessi, per fare i conti con il passato, una lotta a mani nude contro il dolore. “Ero andato in montagna con  l’idea che, ad un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile: invece il mio vecchio nemico spuntava fuori ogni volta più forte di prima.”Un libro delicato, carico di tante riflessioni esistenziali, in cui l’allontamento fisico dell’io narrante è un percorso che s’invera nel momento del pianto, un pianto violento che segna l’inizio di una nuova vita. 
Il libro, suddiviso in capitoli che si snodano in percorsi tematici che ruotano attorno ad un oggetto, è accompagnato da citazioni musicali e letterarie.  Un libro che ha come sfondo una natura ricca che non si fa mai sorprendere in vestaglia. Cognetti, 1978, è nato a Milano. Oltre che per la montagna, ha un grande amore per la letteratura americana, su cui ha girato documentari. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Sofia si veste sempre di nero”, dello scorso anno, col quale ha vinto il Premio Fucini e il premio Settembrini, oltre ad essere stato selezionato al Premio Chiara e al Premio Strega. Un passaggio: “Fin da bambino sentivo la mancanza di un maestro. Mio padre lavorava tutto il tempo, e di altri maschi adulti in giro non ne vedevo. Ai miei occhi la città apparteneva alle donne, perciò era chiaro che avrei dovuto cercare altrove: fuori di casa, lontano dalla scuola, dovunque si nascondesse, se esisteva, il mondo degli uomini.”
 
 
 


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