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Federica Brisci/Quella finestra sul mare

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

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LUG
2013

 

Quando leggo un libro, spesso mi ritrovo a fantasticare su chi possa averlo scritto. Non parlo di nome e cognome, per carità; quanto piuttosto delle caratteristiche dell’autore: quanti anni ha, dove vive, cosa ha studiato, cosa fa nella vita oltre allo scrittore – ammesso che faccia qualcos’altro e che non sia fra quei pochi fortunati che di scrittura non solo ci vivono, ma ci sguazzano anche (beati loro!). Mi interessa soprattutto scoprire quanto sono simili o dissimili al personaggio di cui parlano e mi intriga immaginare il loro processo di immedesimazione. È da folli, lo so, ma non sapete la sorpresa quando ci si ritrova con un autore completamente diverso da quello che si era immaginato.

È quanto è accaduto nel corso della premiazione del concorso letterario “Una piccola poesia”, indetto da Le Muse Project, avvenuta lo scorso 16 giugno. Vincitrice del primo premio per la sezione Narrativa è stata Federica Brisci, una giovanissima scrittrice tarantina che, contrariamente alla sua età (ha ventisei anni) e al suo aspetto (ne dimostra meno di venti), possiede una sensibilità da donna decisamente più matura. Il suo racconto “Il poeta col gilet blu”, svela infatti una profonda capacità di introspezione e un talento davvero ammirevole.

Sei giovanissima ma hai già collezionato diversi successi in ambito editoriale. Quando hai iniziato a scrivere?

«Direi che è iniziato tutto al liceo. Inizialmente non amavo molto la letteratura, ma grazie alla passione e alla bravura della mia professoressa mi sono avvicinata sempre di più a quest’arte. È stata lei a “scoprirmi”, per così dire. Ha visto in me qualcosa che non pensavo di avere e da lì ho cominciato a scrivere lettere ad amici lontani, diari e pian piano sono arrivata alla poesia. Erano odi dedicate quasi interamente al mare, che è la mia grande fonte di ispirazione. Questo manto blu come il cielo che rappresenta la salvezza, poiché non ha alcuna linea di confine. Ci si può spingere sempre più in là, sempre più avanti».

E poi è arrivata la prosa.

«Sì, esatto. Sono approdata ai racconti brevi e ai romanzi. Ne ho persino uno che è ancora incompiuto. Lo finirò quando avrò l’ispirazione giusta per scrivere la conclusione. In famiglia, comunque siamo tutti appassionati di scrittura: io, mia sorella Roberta, mio padre. Mia madre invece è la sua musa ispiratrice».

 

Perché scrivi?

«Scrivere per me è un’esigenza, un bisogno. Ma soprattutto è diventato un dovere. Scrivo per cercare di lasciare qualcosa, di scaturire una riflessione, di smuovere le coscienze. Attraverso i miei racconti provo a dare voce a chi vive quella stessa situazione e non trova via d’uscita. Prendiamo per esempio il caso Ilva».

Tema del racconto “Il poeta col gilet blu”, vincitore del premio letterario “Una piccola poesia” indetto da Le Muse Project di Lucrezia Maggi.

«Ero particolarmente ispirata quando ho scritto quel racconto. Sai, io abito ai Tamburi e vivo sulla mia pelle tutti i disagi e le problematiche di cui si sente parlare spesso. Ma soprattutto sono nel mezzo di una immensa contraddizione: casa mia si affaccia da un lato sul mio adorato Mar Piccolo; dall’altra invece ci sono le ciminiere del siderurgico. Sembra di essere davvero in due posti differenti, e invece è sempre lo stesso. Il bene e il male della nostra città sono a pochi passi l’uno dall’altro. Abitando a stretto contatto con la fabbrica, come dicevo, sono testimone di tutto ciò che accade: vedo con i miei occhi la polvere nera o rossa che si deposita sui nostri balconi; osservo il dolore di chi ha perso un parente, un familiare o una persona cara. Capisco le paure e i timori di chi prega ogni giorno affinché non accada nulla di male. Conosco le storie dei miei vicini, i bambini ammalati, le lapidi sui palazzi. “Il poeta col gilet blu” è nato dalla mia testa, è vero; è frutto della mia fantasia, ma allo stesso tempo è un racconto molto veritiero. Protagonista è una donna che in un momento di quiete si ferma a riflettere, a ripensare a suo marito, morto in fabbrica, e a suo figlio, costretto a vivere senza un padre. È una condizione, purtroppo, comune a molte persone del mio quartiere».

 

Tocchi delle corde particolarmente delicate.

«Ho voluto parlare di un argomento così forte, proprio perché solo raccontando si può dar pace al dolore, fornire una testimonianza su una tematica così importante. Perché con il silenzio non si ottiene nulla. Provo a dare una scossa a chi sente di non avere più speranza. Non a caso la protagonista del racconto è senza nome. Ho fatto in modo che ogni donna potesse immedesimarsi nella sua situazione».

Classificarsi al primo posto deve essere stata una grandissima soddisfazione.

«Altroché. E del tutto inaspettata, direi. Ne ero talmente sorpresa che quando è stato fatto il mio nome ero imbarazzatissima, nonostante solitamente io sia molto spigliata. Sono stata contenta del premio e soprattutto delle parole di Silvana Pasanisi, presidente di giuria. Quando mi ha visto, ha detto: “Hai l’aspetto di una ragazzina, ma il cuore di una donna”. Si aspettavano tutti che l’autrice di quel testo fosse una donna più grande, in quanto è scritto in prima persona e scava nel profondo delle sensazioni che può provare una madre, una moglie che ha perso suo marito e che è costretta, suo malgrado, a crescere il figlio da sola».

Chi è questo poeta col gilet blu?

«È il padre nell’immaginario di suo figlio. “Poeta”, perché ritengo che la poesia sia uno strumento non solo di evasione e di introspezione attraverso una dimensione onirica, ma anche di denuncia. È un’arma che non attacca, ma che difende. Vedo nella poesia una funzione salvifica, qualcosa in grado di guarire, sia chi scrive che chi legge. “Blu” perché oltre a essere il mio colore preferito, rappresenta il mare, il cielo, tutto ciò che amo. Il cielo di Taranto, invece, è rosso, il colore di una dimensione sociale. È come se Taranto vivesse sempre al tramonto».

 

In questi anni stiamo assistendo a un’ingente emigrazione dei giovani tarantini, verso città che possono offrire maggiori possibilità. Fra restare e partire, quale sarebbe la tua scelta?

«Sono molto legata al mio territorio, perché nonostante tutte le problematiche fa parte di me, della mia vita, della mia infanzia. Andrei via solo per esigenze lavorative; mai per una pura e semplice voglia di abbandonare la città. Sarebbe come lasciare un figlio che ha bisogno di cure. Ecco, quello non lo farei mai. Non appartengo alla categoria di chi scappa via per il semplice gusto di allontanarsi da una città che non ha abbastanza nel cuore. Tuttavia, non sono neanche disposta a sacrificare il mio futuro. Dunque se fossi costretta, sì… a malincuore andrei via. Ma sentirei in ogni momento il bisogno di tornare. Mi rincuora il fatto che quando le radici sono forti, non ci si allontana mai del tutto. Con il cuore si rimane sempre nella propria terra».

Parli spesso di salvezza, soprattutto attraverso la poesia. Pensi che ci sia una salvezza per Taranto?

«Assolutamente sì. Credo che ci sia una possibilità di riscatto, di liberazione, ma soltanto se si è compatti nel volerlo. Una sola voce può fare poco, ma tante voci messe insieme possono essere significative: migliaia di fiammelle creano una grande luce. Di questo sono convinta. Ecco perché è importante denunciare, ecco perché scrivo: non per autopromozione, ma per riflettere su me stessa e per far riflettere chi ha voglia di leggermi. L’autore, attraverso il proprio scritto, lancia un messaggio, si mette in gioco, va incontro al giudizio e poco importa se sia positivo e negativo: importa solo scaturire una reazione».

Prima di questo premio hai partecipato a diversi concorsi e hai pubblicato un romanzo con il gruppo L’Espresso.

«Esatto. Il primo romanzo, “Quel diario in un bar” pubblicato sul sito ilmiolibro.kataweb.it e stampato nel 2009, l’ho scritto in tre giorni. Dalla mattina alla sera senza sosta. Anche quel libro parla di una donna che ha perso la gioia di vivere e soffre di una malattia che ho chiamato “tropparia”, intesa come la mancanza di tempo per riflettere, per vivere, per sognare. Quella sensazione di panico che impedisce di respirare. Anche questa donna ha un figlio, e ha un marito che non la ama. Pertanto lei ha perso ogni stimolo, ogni speranza. Fino a quando non le viene in aiuto un diario trovato in un bar. Ogni capitolo racconta una storia, e attraverso ogni storia lei scopre, o meglio riscopre, una verità. L’ultimo insegnamento sarà proprio quello di affidarsi a qualcun altro, qualcuno che sappia ascoltare, che doni il suo tempo. Perché per guarire dalla “tropparia” e trovare finalmente la felicità è necessario essere in due».

Stai lavorando a qualche altro scritto?

«Sì, certo. Continuo a scrivere racconti brevi, ho diverse idee per alcuni romanzi che voglio realizzare e sto puntando su una novità, per me: mi sto dilettando con le fiabe. Scrivere per bambini, tuttavia, è molto più complesso di quanto si possa pensare».

 

Sono curiosa di scoprire come avviene il tuo processo creativo. Come trovi l’ispirazione per storie così profonde?

«Solitamente le idee mi vengono mentre sono a letto, di notte. Penso e ripenso a quei personaggi che pian piano prendono forma nella mia mente e sento la necessità di buttare tutto su carta, svegliando inevitabilmente mia sorella. Se non scrivo subito rischio di perdere l’intreccio, perdo l’ispirazione. “Carpe versum”! altrimenti non lo si ricorda più. In ogni caso, quando poi mi metto a scrivere tre sono i luoghi in cui riesco a concentrarmi meglio: la mia camera, il salotto e la cucina. Ma non tutta la cucina: solo quell’angolino, vicino alla finestra che si affaccia direttamente sul mare. Ecco, guardo il mio Mar Piccolo e navigo con la fantasia. Non c’è vista migliore».

 

 



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