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QUANDO LE PAROLE ARRETRANO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

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LUG
2013
Qual è il motore della cultura? Di cosa parliamo quando parliamo di cultura? Sostanzialmente fare cultura è innovare, favorire il movimento storico superando di volta in volta i limiti, le impostazioni, le forme precedenti.  Fare cultura è laboratorio di sperimentazione, officina creativa nella quale il piacere non è dato tanto dalla riuscita dell’esperimento, quanto piuttosto dall’esperimento stesso, dalle reazioni che esso scatena, magari proprio quelle che non ci si aspettava. Quando si pronuncia questa parola,  “c u l t u r a” , è inevitabile il sobbalzo. E’ una parola pesante e al tempo stesso sfuggente. Una parola che ultimamente viene veicolata attraverso varie forme e declinata in contesti diversi: cultura del cibo, cultura dello sport, cultura del verde. E questo è decisamente positivo, in quanto si tratta di un primo passo necessario per superare lo stereotipo di una “cultura congelata” in determinate forme della tradizione. Una di queste forme, per fare un esempio, è la parola scritta, stampata. Anzi, applicando il principio della sottrazione: la parola. Siamo proprio certi che la cultura passi solo attraverso la parola?  Orale o scritta non fa distinzione. Siamo proprio convinti che l’eloquio ricco e fluente, la scioltezza nell’uso delle parole, siano il terreno esclusivo della cultura? Che il sentire, il sotterraneo mondo delle emozioni e delle passioni, la tragicità che caratterizza ogni singola esistenza umana, venga alla luce attraverso le parole? Siamo convinti che la battaglia per la cultura vada portata avanti soprattutto con le armi della parola?  Ci sono altre armi, altrettanto aguzze, forse ancor più incisive e penetranti che alimentano la cultura di un popolo, di un territorio, di una realtà ancor più circoscritta. Una di queste armi è l’immagine. Ultimamente Martina Franca è un ribollire di iniziative, lodevoli nella misura  in cui vogliono contribuire a dare una spinta in avanti alla storia, a quel dinamismo cui si accennava in apertura. Ad attestarlo i numerosissimi manifesti, locandine, spazi pubblicitari fissi o mobili, che “arredano” (con un gusto un po’ kitsch, diremmo, ma non è questa l’occasione per parlarne)  le pareti della nostra cittadina. Chissà quante volte nel corso della giornata scorrono sotto i nostri occhi, eppure, provando a compiere uno sforzo di memoria, non riusciremmo a ricordarne  nessuno.
No, uno certamente non sarà affatto sfuggito: si tratta del manifesto della XXXIX edizione del Festival della Valle d’Itria, opera di Rafal Olbinski, che ritrae un volto femminile sul quale spiccano occhi dall’iride azzurra contornata dagli evocativi cigni, uno sguardo estremamente mobile pur nella sua fissità. Un’immagine di una portata culturale straordinaria che veicola il centro drammaturgico delle cinque opere in programma: il tema della visione. (Chi vorrà approfondire i dettagli potrà visitare il sito del Festival: www.festivaldellavalleditria.it). In questo spazio ci preme fare alcune considerazioni legate al manifesto di questa XXXIX edizione del  Festival e ad un’opera in particolare, Maria di Venosa, sulla quale la scorsa settimana si è svolto un interessantissimo incontro, nell’ambito dell’iniziativa “Mettiamoci all’opera”, a cui hanno preso parte la scrittrice Maria Pia Romano, il direttore artistico Alberto Triola, il regista e coreografo Nikos Lagousakos, il direttore d’orchestra Daniel Cohen e tutti gli artisti impegnati in questa seconda opera in cartellone che sarà rappresentata questa sera in anteprima mondiale come omaggio ai 400 anni dalla scomparsa di Carlo Gesualdo di Venosa e che sicuramente produrrà forti suggestioni nel pubblico che si troverà di fronte ad una performance multimediale: video installazione, musica, canto, video art, danza. Insomma linguaggi diversi, fra i quali la parola non assume la centralità alla quale siamo abituati. Del resto D’Avalos ha scritto un’opera nella quale i personaggi principali non cantano le parole di un libretto, ma esprimono sentimenti ed emozioni primordiali attraverso vocalizzi. La vicenda che vi si narra è la tragica morte dei due amanti, Maria e Fabrizio, voluta da Carlo Gesualdo perché ferito nell’onore, dal tradimento della sua bella e spumeggiante Maria. Naturalmente la musica si riconferma protagonista assoluta del lavoro che esalta la fisicità senza scadere nel racconto didascalico e offrendo al tempo stesso una visione viva e concreta delle emozioni e delle passioni dei personaggi. Emozioni e passioni dinanzi alle quali la parola arretra, rivelandosi impotente rispetto alle tempeste interiori, a sottolineare che dinanzi alle passioni, prima fra tutte l’amore, come dinanzi alla morte, le parole si danno tregua, regredendo in un climax discendente, che le fa divenire sillabe, vocalizzi tanto più efficaci a trasmettere realisticamente una realtà drammatica, quanto più lontani dalle parole codificate, rigide e, proprio per questo artificiali. Un esperimento davvero innovativo, visionario, folle se vogliamo. Un esperimento che punta all’essenza, che stimola e produce nel pubblico visioni e suggestioni. E siamo tornati così allo sguardo, agli occhi “assetati” del manifesto di Rafal Olbinski: occhi che guardano lontano, abbattono confini reali e immaginari, penetrando nel ventre di quel formicaio umano che è il mondo delle passioni.
 


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