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Parole che contano

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

8
NOV
2013
LETTERA AD UNA PROFESSORESSA
Pubblicato nel 1967, il libro di Don Lorenzo Milani e dei ragazzi della scuola di Barbiana, è un’opera collettiva letta in tutto il mondo e che continua ad essere un faro per quanti confidano in una scuola che alleni ad uno sguardo attento e critico a tutto quello che intorno alla scuola si muove, fornendo non tanto nozioni ma gli strumenti indispensabili all’esercizio della cittadinanza attiva, senza aver paura di sporcarsi le mani, rivolgendosi ai ragazzi della sua scuola come ai “sovrani di domani”, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare quando esse sanzionano il sopruso del forte. Il “maestro” per Don Lorenzo Milani deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. “Lettera ad una professoressa” quando apparve fu davvero un testo rivoluzionario, un atto d’accusa contro una scuola che riproduceva e consolidava le diseguaglianze socioeconomiche e culturali presenti nella società, impedendo di fatto la mobilità sociale e la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Una scuola che non forniva i mezzi  i mezzi affinché studenti diversi avessero comunque successo a scuola.  Riproponiamo per questa nostra rubrica l’incipit.
“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che <<respingete>>. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.  Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere visto. Sul principio pensavo fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. E’ solo mancanza di prepotenza.”
 
E LA FELICITA’, PROF?
“Nessuno mi ha mai insegnato cosa passa nella testa di questi ragazzi, a quale ritmo si muove il loro cuore, quanto dovrebbero correre, quando sostare, di cosa nutrirsi, di cosa innamorarsi e cosa avviene alla loro materia quando è provata dal fuoco dei setimenti, positivi o negativi che siano. La carne, le ossa, il sangue.” E’ un passaggio tratto da “E la felicità, prof?” di Giancarlo Visitilli, che oltre ad essere giornalista, insegna Lettere a Bari, dove ha fondato la cooperativa sociale “I bambini di Truffaut. Ideatore del festival di cinema e letteratura “Del racconto, il film” (la terza edizione è partita il  2 novembre e proseguirà  fino al 16 marzo 2014, animando le serate dei Comuni di Mola di Bari, Bari, Sannicandro di Bari, Modugno e Toritto),  Giancarlo Visitilli è animato dalla volontà di favorire una concreta ricaduta delle arti, cinema e letteratura in primis, sulla vita reale passando attraverso la scuola e gli studenti. E sono la scuola e gli studenti i protagonisti del suo “E la felicità, prof?”, un libro che, pubblicato nel 2012, continua ad offrire spunti di riflessione a quanti auspicano una riforma della scuola nella direzione dell’accorciamento delle distanze dalla vita concreta degli studenti e delle studentesse. 
Per Visitilli,e per molti altri (non solo insegnanti) è fondamentale ridurre le distanze fra la scuola e la vita dei ragazzi, portare nelle classi i drammi esistenziali e farne materia viva, seguire gli adolescenti, ascoltarli senza giudicarli, rivedere i contenuti alla luce degli attuali cambiamenti nel mondo, puntare all’essenza senza cadere nella trappola della banalizzazione o della semplificazione, contrastare l’ipocrisia ed educare alla partecipazione attiva non soltanto gli studenti ma anche i genitori. Aspetto, quest’ultimo, che spesso è una nota dolente: la scuola, infatti, è spesso usata “come un parcheggio a tempo per figli svogliati”, è una sorta di “orfanotrofio” nel quale tutti, giovani e adulti, sono soli, abbandonati a se stessi. Per questa ragione l’urgenza richiamata da Visitilli è quella di non arrendersi, di tenere duro e insegnare a non rinunciare alla felicità, a credere in se stessi, nel proprio talento e nel coltivarlo con impegno. 
 
ELOGIO DEL RIPETENTE
“Elogio del ripetente” è un pamphlet nel quale l’esperienza personale di Eraldo Affinati, professore di Lettere di scuola superiore, si salda alla sua vocazione letteraria. Con rimandi colti e riflessioni, si toccano tanti temi: il bullismo, i nativi digitali, lo stato attuale dell’istruzione in Italia, l’adolescenza, la funzione della letteratura, il rapporto insegnanti/studenti. E’ un libro che parte dall’esperienza dell’autore in una realtà particolare: “La città dei ragazzi”, una comunità educativa fondata da un sacerdote irlandese dopo la seconda guerra mondiale vicino a Roma, che un tempo ospitava ragazzi orfani abbandonati e che oggi ospita soprattutto giovani stranieri; all’interno di questa struttura c’è l’Istituto Professionale “Carlo Cattaneo”, nel quale Affinati insegna a quelli che l’autore chiama “frantumi italiani… ragazzi che vivono nel degrado e nell’abbandono, circondati da adulti poco rassicuranti.” Ragazzi bocciati, indisciplinati, ribelli, che arrivano in quella scuola come se fosse l’ultima spiaggia, perché mandati via dalle altre scuole. Sono ragazzi che hanno fallito, ma sono pieni di energia e di forza, ma anche di frustrazioni. Attraverso le loro esperienze si percepisce lo smarrimento che ci coinvolge tutti, perché questi ragazzi sono nostri figli e non possiamo abbandonarli; si possono cogliere tanti nodi irrisolti, tante spine della nostra società: la crisi non solo economica ma soprattutto esistenziale che stiamo vivendo. E’ un libro di militanza partecipativa. Misurare l’intelligenza umana con parametri oggettivi è un’impresa destinata a fallire. Ci sono variabili fatte di sensazioni, di emozioni, di reazioni creative che non si possono identificare con i tradizionali mezzi di valutazione oggettiva. Mezzi che il ripetente rifiuta perché è portatore di una quintessenza incoercibile che presenta nella sua autenticità. Per Eraldo Affinati la scuola vive una condizione anacronistica anche perché non dispone di strumenti adeguati. Si tratta di una scuola che adotta un sistema ottocentesco (lezioni frontali, vocabolari, penne, fogli protocolli, lavagne, spiegazioni, riporto mnemonico delle spiegazioni) con adolescenti che dispongono di una capacità associativa e una formazione tutta digitale. “Primo compito dell’insegnante – scrive Affinati – è quello di trasformare l’ipocrisia in un’esperienza conoscitiva. Ogni tanto bisogna mischiare le carte. Non accontentarsi del mansionario. Assumersi la responsabilità dei contesti nei quali operiamo. Prendersi in carico lo sguardo altrui. Insomma tirar fuori, prima ancora che gli artigli, se stessi.”
 


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