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D come dialetto/PAROLE CHE CONTANO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

24
GEN
2014
La presentazione del rigoroso lavoro di Giuseppe Gaetano Marangi, ”La parlata dei Martinesi e altri ricordi”, svoltasi in occasione della giornata nazionale dedicata al dialetto, ci offre lo spunto per una lettura comparata di testi che affrontano lo stesso tema
 
LA PARLATA DEI MARTINESI E ALTRI RICORDI
 
Nel segnalare lo straordinario volume che l’avvocato Giuseppe Gaetano Marangi ha costruito, diremmo edificato, con rigore, passione, cura estrema, vorremmo che i lettori (e ci auguriamo che siano tanti) sfogliassero, leggessero, vivessero questo testo con le lenti appassionate del collettore di dettagli, oltre che con quelle asettiche dello storico, con lo spirito di chi, approcciandosi al dialetto, voglia ricreare quell’atmosfera originaria, nostalgica e al tempo stesso utopica, di risalita alle fonti dalle quali sgorgò lo spirito identitario, gli umori che diedero suono e forma a quella “parlata dei martinesi”, “dura e ostica” nella quale è condensato ” lo specchio del nostro sentire”. 
Questa risalita nostalgica alle fonti del dialetto non è per nulla lineare e limpida, perché per sua natura la nostalgia, quando rintraccia e riscrive le tracce, le confonde. Proprio come accade nel processo del ricordare. Ed infatti Marangi nella prefazione scrive: “Questo è solamente un libro di ricordi e nello stesso tempo un atto d’amore nostalgico per qualcosa che non esiste più, ma di cui nei cuori di alcuni vecchi vibra l’ultimo palpito.” 
L’articolato volume dell’avvocato Giuseppe Gaetano Marangi, lungi dal voler rafforzare le chiusure identitarie che, in tempi come questi di insicurezza e precarietà, invadono gli spiriti, si pone come strumento di conoscenza della tradizione linguistica e culturale che ha caratterizzato il processo storico di Martina Franca, rivolto alle giovani generazioni, affinchè possano “individuare i fili più minuti della trama di cui è fatta la tela sulla quale si svolge la vita…dei martinesi.”  Conoscere le proprie radici, farle emergere è indispensabile per assegnare ad esse il giusto riconoscimento e valore, “premessa per un’apertura consapevole ad altri  orizzonti e contributi. Il vuoto, la tabula rasa, il nulla non hanno mai consentito un arricchimento da confronto; il confronto, infatti, presuppone il possesso di qualcosa da confrontare.”
 
 
 
ALLE ORIGINI DEL DIALETTO PUGLIESE
 
Il testo nasce dalla convinzione dell’impossibilità di recuperare la memoria storica,  prescindendo dall’analisi dei contributi che i dialetti offrono al territorio in cui affondano le proprie radici. L’autore, Stefano L. Imperio, nella premessa precisa il proprio scetticismo rispetto al tentativo di potare il vernacolo a dignità letteraria, innanzi tutto per la difficoltosa riproduzione grafica della sua esatta pronunzia e la faticosa interpretazione delle scritture. Tuttavia il testo è animato dall’intento che il patrimonio rappresentato dall’enorme mole delle scritture vernacolari non si perda nel circolo ristretto dei cultori e degli amici, mantenendo così la dignità di libera lingua popolare, adatta alla conversazione,  la cui ricchezza e specificità  sono costituite da quell’arguzia spontanea e da quel brio conviviale che la  lingua letteraria non potrà mai riprodurre. Questo lavoro sul dialetto pugliese ha preso avvio dalla conoscenza  del dialetto più  arcaico parlato a Mottola per poi estendersi alle altre realtà linguistiche pugliesi, analizzando le differenze e le analogie presenti nelle varie zone della Regione circa i mutamenti avvenuti nel tempo.  “Per giungere a dare fondamento storico al dialetto – precisa l’autore – è stato necessario superare un poderoso ostacolo: dimostrare cioè che un linguaggio, trasmesso solo oralmente, attraverso un consistente numero di generazioni, si sia potuto conservare, se non proprio integralmente, perlomeno in maniera che la sua identità fosse riconoscibile.” Tesi centrale del volume è quella secondo la quale ciò che avviene per i dialetti non è diverso da ciò che avviene anche per le lingue classiche, in quanto i cambiamenti, che non sono mai radicali, si verificano solo per profondi mutamenti sociali o culturali. La convinzione espressa dall’autore è dunque quella che tutte le lingue possono cambiare la forma, ma non la sostanza fondamentale, anzi nei dialetti questo aspetto è ancor più radicale perché non subiscono l’opera riformatrice dei grammatici e degli intellettuali in genere.
 
LA LINGUA BATTE DOVE IL DENTE DUOLE
 
Cos’è la lingua, e cos’è il dialetto? Cosa esprimiamo con l’una e cosa esprimiamo con l’altro? “La lingua batte dove il dente duole” è un serrato e convincente dialogo  tra  Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, i quali raccontano come la lingua esprima chi siamo veramente. A fondamento del loro confronto vi è una profonda, giusta, verità: in Italia abbiamo tante lingue che sono dei veri e propri “universi espressivi”, degli “alberi”, la cui “linfa” è rappresentata dai dialetti. L’esergo del dialogo fra Camilleri e De Mauro è costituito dai versi di Ignazio Buttitta che riportiamo integralmente e che fanno ben comprendere il senso di questo loro confronto: “Un populu/mittitulu a catina/spugghiatulu/attuppatici a vucca/è ancora libiru./ Livatici u travagghiu/u passaportu/a tavola unni mancia/ u lettu unni dormi/è ancora riccu./Un populu diventa poviru e servu/quannu ci arrubbanu a lingua/adduttata di patri:/è persu pi sempri.”
Per Cammilleri il dialetto è la lingua degli affetti, “un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante.” Le parole dialettali per lui esprimono il pensiero in modo compiuto, a tutto tondo, “come un sasso” e non sono  solo una questione di cuore ma anche di testa. De Mauro incalza: “Il dialetto non è solo la lingua delle emozioni. L’ho capito in Sicilia, da non siciliano, quando sono arrivato lì, professore all’università, accolto dalle famiglie dei colleghi. Si partiva con l’italiano, nel senso che tutti parlavano in italiano. Ma appena la discussione si accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso – e magari si passava alla politica, improvvisamente cambiavano registro linguistico. Un po’ alla volta slittavano nel dialetto, e dell’italiano si scordavano. Gli uomini, per parlare di argomenti più impegnativi intellettualmente, usavano il dialetto. Perché a Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto.”
 


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