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Ezia Mitolo/L´aria buona dell´arte

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

27
LUG
2012

 

Ezia Mitolo
 
L’aria buona dell’arte
 
È quella che si respira a casa di questa artista, partita da un mucchietto di terra, passata dall’Accademia delle Belle Arti e ora tornata a Taranto, dove sogna orizzonti più ampi e una personale tutta sua
 
Incontro Ezia Mitolo in un’insolita fresca serata di luglio. Mi spalanca le porte della sua casa ed inizio così a respirare l’aria buona dell’arte. E’ colorata la sua abitazione, in ogni stanza c’è un’impronta inconfondibile. Ezia ha il dono di rendere speciale ogni cosa che ha la fortuna di finire tra le sue mani! E’ un vulcano in eruzione, uno tsunami di vitalità e, dopo avermi offerto una deliziosa caramella di zucchero (rigorosamente fatta da lei!), ci mettiamo a sedere  e diamo il via a una piacevolissima conversazione…
Ezia, ti diplomi all’Accademia delle Belle Arti di Bari –sezione scultura- sotto la guida di Francesco Somaini e Nicola Carrino. Ti perfezioni poi in Arti Visive, della Musica e dello Spettacolo presso l’Accademia delle Belle Arti di Macerata. Ma quando e come realmente scopri la passione per la scultura?
«Sin da piccolissima. Ricordo che ero bambina quando, durante le vacanze estive che trascorrevo con i miei cugini in campagna a stretto contatto con la natura, mi divertivo a creare piccole sculture;  scavavo buche nella terra, impastavo con l’acqua ottenendo un composto pastoso da modellare, e  cominciavo a plasmare forme che, una volta seccate al sole, mettevo in bella mostra negli angoli della casa con gioia e soddisfazione infinita di mia madre e parentado che al primo tentativo di presa, si ritrovava in mano un mucchietto di terra che si infilava in tutti gli anfratti! Devo molto inoltre a mio padre che da autodidatta mi ha trasmesso la passione per il disegno. Sono la più grande di tre figli e fino alla mia preadolescenza con lui, ogni sera, ci si dava “appuntamento” nel nostro salone di casa per “pittare” insieme, lui sui suoi quadretti, e io a emularlo sui miei. Come potevo non desiderare fortemente di intraprendere gli studi artistici una volta divenuta agguerrita tredicenne? Nonostante la disapprovazione (per usare un eufemismo) della mia famiglia, sono riuscita ad iscrivermi dapprima al liceo Artistico e poi all’Accademia. Scelsi scultura perché avevo questa necessità tattile molto forte, il senso del volume mi spingeva da dentro, e poi sapevo che nella classe di scultura avrei potuto fare anche disegno. E lì, i miei due incontri fondamentali (e fortunati, la cattedra di scultura era stata per anni “scoperta” prima della mia iscrizione): gli scultori Francesco Somaini e Nicola Carrino. Devo molto al primo per la mia formazione. Con lui è stata intesa profonda a prima vista, e poi grande stima, rispetto e affetto fino alla sua scomparsa accaduta qualche anno fa. Con Carrino, che ha preso il posto di Somaini negli ultimi due anni di Accademia il confronto è stato altrettanto stimolante. Somaini era la scultura organica, il calore della corporeità, la forza dell’emozione. Carrino invece lo scultore dell’inorganico, della geometria minimale delle forme, del razionale, della forza del “concetto”. Tutto il contrario insomma.» 
Negli anni 1989 e 1994 sei stata selezionata per i master della Fondazione Antonio Ratti di Como e in entrambe le edizioni hai vinto il primo premio. Cosa ricordi di questi traguardi?
«Essere premiata, mi ha dato una certa sicurezza innanzitutto emotiva e di conseguenza, nel tempo, professionale. Essere selezionata e poi premiata da artisti-docenti di una certa notorietà, che fino ad allora conoscevo solo dai libri di storia dell’arte, è stato un momento di forte gratificazione. I ricordi di quelle due esperienze sono infiniti, il confronto quotidiano con grandi e affascinanti menti, avere a disposizione ogni istante i loro insegnamenti, le loro critiche, i loro consensi e rimproveri, vederli muoversi tra noi allievi in un modo che diventava, giorno dopo giorno, sempre più familiare, confidenziale, d’intesa (con Karel Appel, durante la festa di saluto che si organizzava a ogni fine corso, ho anche ballato uno scatenatissimo rock and roll!) è stata un’esperienza ineguagliabile, che ripeterei anche adesso. La partecipata condivisione di tutto, non era voglia di competere,  gareggiare, era brama di conoscere, capire e crescere. Tante sono state le amicizie nate da quell’esperienza e che durano ancora oggi.» 
Nel 1998 invece vinci il primo premio nella sezione giovani ad Art et Maggio Arena Puglia. Nello stesso anno ti trasferisci a Milano, dove vivi per circa cinque anni. In questo periodo partecipi a diverse personali di scultura e disegno, e a numerosi eventi, completando la tua ricerca attraverso la sperimentazione di nuove tecniche multimediali, video e performance. Cosa ci racconti di questa fase della tua vita di giovane artista?
«Arrivai a Milano con la cosiddetta “valigia piena di sogni”. Milano in quegli anni era considerata, per l’arte contemporanea, trampolino per l’Europa. Per me era innanzitutto esigenza di confronto artistico con una realtà molto differente da quella che lasciavo giù a Taranto. Era anche desiderio di crescere come persona, attraverso il vivere lontano dal luogo natale, caldo e rassicurante ma spesso anche limitativo, restrittivo. Indubbiamente sono stati anni di buon “rodaggio” formativo, ritengo di essere cresciuta sia professionalmente che come persona. Giravo molto per gallerie, assetata di conoscere tutto quello che, così a portata di mano, non avevo mai avuto, cercando anche di capire come “muovermi” per promuovere il mio lavoro sempre rinnovandomi sia formalmente che concettualmente» 
Dal 2003 ti trasferisci a Roma dove vivi per altri cinque anni. Partecipi a numerosi eventi multimediali, collabori con la rivista “Drome” e prendi parte a diverse collettive e personali. Come hai vissuto quegli anni? Che differenza hai riscontrato sul piano artistico e personale tra l’esperienza a Milano e quella a Roma?
«Sul piano personale sono andata via da Milano perché mi rendevo conto che lentamente perdevo il mio smalto, la mia spontaneità! Di Milano non amavo l’aspetto patinato-modaiolo, che in quegli anni era ancora era molto forte. Da brava “terrona”, avevo bisogno del calore del mio sud, del calore umano, mi mancava tutto questo. Mi mancava il poter dare una pacca amichevole sulla spalla alle persone senza poi essere guardata con diffidenza. Decisi così di trasferirmi a Roma. Ho conosciuto già nei primi mesi i ragazzi della rivista “Drome” con cui sono nate delle profonde amicizie e collaborazioni, e tanti curatori che mi hanno invitata a diversi eventi. Tra questi, la Quadriennale di Roma. Qui ho ritrovato il calore che cercavo. Le amicizie. La mia ironia. Roma mi ha fatto riappropriare di quella parte di me stessa che a Milano si stava un po’ spegnendo.»
Lasciare la propria città perché non offre quelle opportunità che si inseguono tenacemente al fine di potersi affermare sul piano lavorativo o artistico è un destino comune a tanti giovani talenti. Cosa ti ha insegnato vivere sulla tua pelle questa dura esperienza?
«Mi ha portato ad amare maggiormente Taranto. Mi arrabbiavo moltissimo con i miei amici tarantini che abitavano fuori e all’occorrenza, ne parlavano male. Ero consapevole degli aspetti negativi della mia città, ma anche di quelli per cui poi ho scelto di tornare. Oggi a quasi sei anni di distanza, sono sempre più convinta di aver fatto la scelta giusta.»
Ezia, secondo te l’arte è alla portata di tutti o una vocazione riservata solo a pochi eletti privilegiati?
 «Se sei “artista” lo sei da sempre. Magari te ne accorgi dopo ma lo sei da sempre. E’ una questione di talento, di attitudine, di pensiero divergente ben sviluppato, e indubbiamente anche di esperienza di vita.»
 Cosa esprime la tua arte?
«Il mio lavoro è concentrato sul corpo e l’emotività, i nostri vissuti interiori, le nostre paure, le nevrosi, i nostri complessi processi psichici. Siamo in continuo movimento ed evoluzione, moriamo e rinasciamo ogni istante. Un faccia a faccia con la nostra verità di dentro.»
Di te hanno parlato la “Repubblica”, il “Tempo”, il “Quotidiano”, il “Messaggero”, la “Gazzetta del Mezzogiorno” e tante riviste specializzate d’arte. Che cosa si prova a collezionare successi?
«Trasmettere emozioni al mio pubblico, coinvolgerlo attivamente, dinamicamente stimolandolo a riflettere mentre il cuore batte più forte. Questo sarebbe il più grande successo.»
Quali i prossimi obiettivi?
«Lavorare maggiormente a livello internazionale. Fare una personale in uno spazio ben strutturato che mi consenta di esporre le mie più grandi installazioni… Un museo?»


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