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Densi Dialoghi/Relazioni tutte da scrivere

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

30
MAG
2014
Costruire arte per interrogare/interrogarsi. Il sociologo Luigi Negro “riannoda i fili” di un progetto in continua evoluzione, già pronto a ripartire
 
Troppo spesso l’artista  si ritrova, in epoca odierna, a essere costretto a una  posizione scomoda, dovendo fare i conti con stereotipi e pregiudizi, “strumenti” di diffidenza che nascondono l’incapacità di cogliere peculiarità e criticità della sua figura. Da qui, l’importanza di iniziative capaci di stimolare e (ri)attivare la circolazione di pratiche, esperienze e suggestioni tra artista e comunità. Tra queste, la residenza artistica “Densi Dialoghi”, culminata con una mostra in corso a Lecce presso l’Ammirato Culture House, che offre l’occasione per interrogarsi con uno dei curatori dell’iniziativa, Luigi Negro (laureato in economia e sociologia con un dottorato in storia, attualmente coordina un osservatorio pubblico di sociologia clinica), su un grappolo di temi, articolati attorno al binomio arte/territorio.
Il progetto prende le mosse da un percorso di riflessione condiviso con Lu Cafausu e le Free Home University (www.freehomeuniversity.org) e sviluppato all’interno dell’ACH, con l’intento di sgretolare alcuni dei luoghi comuni più diffusi sulla figura dell’artista, come spiega Luigi Negro. «Trovo che sia sempre più claustrofobica la dicotomia fra l’idea dell’artista pieno di visioni egoiche e individualiste e quella che lo dipinge quasi come un manipolatore sociale; abbiamo quindi sentito l’urgenza e la necessità di aprirla e decostruirla. Nel dettaglio, è angosciante rimbalzare da un’idea di artista che si auto-protegge fino ad annullarsi dal mercato o nel mercato, fino a quella che pensa che l’artista lavori nella società reale, ma che debba comunicare a eletti o all’interno di dispositivi protettivi quali musei o spazi per l’arte o collezioni che a volte risultano realmente necessari. Luoghi ideali a “leggere” l’arte, ma che spesso divengono essi stessi strumenti per pianificare strategie di diverso tipo. Ciò crea, di fatto, una condiscendenza verso il denaro/capitale/mercato che vuole l’arte, o piegata o esclusa. Vi è anche un’altra arte che da diversi decenni si è connessa fortemente con la società: è quella nota come social practices, e che arriva a comprendere variegate forme di urbanesimo. Queste sono, a loro volta, in apparente contrasto di intenti con quell’arte che è all’interno della “società dello spettacolo” e strumento di seduzione di massa». 
E’ nata così la voglia e il bisogno di sperimentare una strada inedita, «quella del “dialogo denso” ovvero di quel tipo di dialoghi “naturali” che nasce fra due o più persone intorno a un’investigazione, o meglio a una necessità di indagine in un lungo periodo che vede gli artisti, anzi, i dialoganti, in connessione vitale fra di loro (per questo la residenza o il viaggio comune sono altri elementi essenziali al progetto). Questo strumento costruisce quindi il “corpo del discorso”, che diviene il luogo dove ciascuno può, in un atto di fiducia e apertura, donare e condividere e poi creare lingue e grammatiche e infine tentare di comunicare o rinunciarvi». Si sviluppa così un percorso in fieri, in cui nulla è dato per scontato. «Importante per noi è stato è condividere, porre e porsi domande, dubbi, nessuno di noi si aspetta soluzioni, che siano esse  estetiche o sociologiche o politiche o scientifiche, e ciò avviene anche se saranno coinvolti nei dialoghi scienziati, sociologi o filosofi  (in questo caso, per esempio, Manno e Arena hanno provato a dialogare e sviluppare temi e suggestioni con un archeologo). La stessa “mostra” è piuttosto un punto di non arrivo, una messa in luce di un processo, più che un punto di chiusura o la creazione di un evento vero e proprio. Quella di Arena e Manno si è smantellata il giorno dopo, rimontandone una piccola parte nelle sale superiori dell’Ammirato, quasi come si fa con un mandala, lasciando (donando) una traccia».
La mostra è stata preceduta da alcuni laboratori aperti ai contributi di altri artisti e della comunità locale. In tal senso, qual è stato il feedback registrato? «Il Salento e Lecce in particolare (soprattutto in questo momento storico) è affamata di arte e il nostro rapporto con artisti e persone che amano l’arte e la seguono è quasi naturale, ma è comunque anche, c’è da dirlo chiaramente, una delle terre più velleitarie da questo punto di vista. In fondo basta guardarci, siamo tutti artisti, in qualche modo; tutti facciamo arte o cultura, ma pochissimi si confrontano veramente con il senso di sincerità e realtà che l’arte e la cultura, quando è vera, ti dona e si dona».
Come procederà invece  “Densi Dialoghi”? «Stiamo pensando a un processo pubblico dei “dialoghi” e dei discorsi in atto, stiamo valutando diverse ipotesi, dal blog al cartaceo, fino alle letture o a video dedicati. I dialoghi comunque continueranno, al di là di questi dispositivi di comunicazione possibili. Questa fase richiede, come la prima, uno sviluppo non rapido, in quanto ha bisogno di un tempo per la “digestione”, una cosa che questa società dimentica spesso o che finalizza a un’urgenza sanitaria».
Il progetto s’inserisce intanto nel solco tracciato da ACH, che opera da alcuni anni sul territorio, sollecitando e promuovendo, attraverso la riflessione e l’azione artistica, la ridefinizione di questo da parte della comunità, valorizzando la posizione geografica del Salento. «La società del sud è da una parte sicuramente sfortunata, ma vivere qui, in questo periodo di crollo lentissimo dell’impero, ti mette in una condizione che, tutto sommato, bisogna considerare privilegiata, in quanto puoi osservare meglio il crollo dalla montagna lontana senza pagarne le conseguenze, direttamente colpiti nella indolente deflagrazione. Questo rende tutto il sud un luogo ideale per le rivoluzioni, anche se l’impoverimento educativo e culturale (più di quello sociale), diventa non solo un freno che per decenni si è espresso tentando di creare coscienze senza capacità di consapevolezza, ma anche un pericolo. Intendo riferirmi al fatto che la rabbia, non potendo esprimersi con cultura, rischia di diventare pura violenza individuale o di organizzarsi intorno al denaro o al potere. Sono comunque convinto che, se ci sarà una nuova utopia (artistica o politica che sia) in Occidente, partirà da luoghi come questo, a sud appunto». In quest’ottica, «l’Ammirato Culture House è un edificio estremamente affascinante, e con una storia di molti secoli, che si trova al centro esatto di un non-quartiere piuttosto indefinibile. Penso sempre che a volte Lecce vista da lì, sembri una città africana con i suoi “palazzacci” grigi e anonimi intorno. Questa nostra collocazione nella città è stata fin dall’inizio una scelta consapevole, e anche quindi tema dei nostri dibattiti e delle nostre ricerche, e continuerà a esserlo sempre di più, spero. È quasi come vivere la narrazione di come una comunità possa essere costruita spesso con insensatezza o con la ragione delle piccole convenienze. Prossimamente verrà presentato all’Ammirato un racconto in video, personalissimo eppure veramente importante su un piano politico, prodotto da noi e realizzato da Sandro Mele. L’artista, che risiede ora a Roma, ha vissuto proprio intorno a quel quartiere una parte della propria vita che ha, con questa sua opera, elaborato, dialogando per molto tempo con vecchi amici, o ritornando e affrontando i propri affetti».  Come un cerchio che si chiude, si torna quindi, in conclusione, al tema dello scambio, del confronto virtuoso e fruttuoso, tratto peculiare delle “incursioni” dell’Ammirato Culture House in una città tanto affascinante quanto contraddittoria come Lecce. «Un dialogo, per essere reale, deve sprofondare nella propria “densità, ma anche nel tempo necessario, affinché questa consistenza possa esprimersi. Poniamoci attenzione, non è qualcosa da dare per scontato nella società dei social network». 
 


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