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FIGLICIDIO/Quel grido inascoltato

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

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LUG
2014
Madri senza cuore? No, l'infanticidio è spesso il risultato di un aiuto mancato, perchè ritenuto non necessario, negato e quindi spesso non richiesto, come spiega la psicologa Anna Lucia Rapanà
 
Il fenomeno del figlicidio rimane uno dei temi più complessi, dolorosi, umanamente incomprensibili  e moralmente e culturalmente destabilizzanti. Occorre osservare che questo fenomeno è raramente un fulmine a ciel sereno, diverse sono le motivazioni che posso spingere una madre a commettere un gesto tanto lontano dalla pietà umana e totalmente contro natura, a partire da difficoltà psicologiche, esistenziali o sociali che possono celare  un disagio latente, irrisolto, non ascoltato e compreso dal microcosmo familiare che troppo spesso  è caratterizzato da   isolamento emotivo e comunicativo.
La famiglia, luogo di affetti e di legami che uniscono profondamente i propri membri, non sempre si presenta come luogo di sicurezza e amore, ma al contrario, alcune volte, può essere scenario di efferati delitti, ed è così che l’amore materno, riconosciuto come una necessità unica e assoluta, matrice di amore, crescita e di vita, diventa in alcuni casi dispensatore di  tragica violenza. 
Il figlicidio   spesso è  il risultato di un aiuto mancato, di un grido silenzioso rimasto inascoltato, sarebbe quindi utile indagare e comprendere il delicato ruolo della  madre nella complessa società attuale per meglio comprendere l’angoscia che si cela dietro a questi terribili gesti, perché  in ogni  singolo caso intervengono un numero molto ampio di concause, di natura psicologica, relazionale e sociale, che contribuiscono a delineare la complessità del fenomeno, chi commette un simile reato è  una donna  che soffre e come tale va accompagnate in un processo di presa di consapevolezza, di responsabilizzazione e di cura.
Per tentare di comprendere meglio tale fenomeno, chiediamo il parere di Anna Lucia Rapanà, psicologa, esperta in problemi individuali, di coppia e familiari, specializzanda in Psicoterapia Sistemico-Relazionale ed esperta in Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense.
 
Gentile dott.ssa Rapanà, chiedo il suo parere circa uno dei temi più difficili e  moralmente/culturalmente destabilizzante, ossia il figlicidio. Cosa può spingere un genitore a un gesto così lontano dalla pietà umana e contro natura?
«E’ molto difficile riuscire a dare una spiegazione razionale ad azioni così sconvolgenti. Ma le notizie di cronaca ci impongono una lucidità assoluta, proprio perché si tratta di eventi drammatici,  la cui lettura, secondo Malagoli Togliatti, deve partire necessariamente dall’indagine profonda dei meccanismi sociali, dei modelli relazionali e dalle strutture sistemiche che definiscono gli spazi ed i ruoli all’interno del nucleo familiare; nucleo che dovrebbe rappresentare il luogo di massima adesione alle aspettative individuali e sociali e al sistema di valori che ne è alla base.
A volte però, il ruolo sociale dei singoli membri del nucleo entra in conflitto con le aspettative individuali dei singoli scatenando meccanismi aggressivi che  tendono a scaricarsi proprio sugli altri membri della famiglia, considerati come i principali responsabili (diretti o indiretti) di questo conflitto».
 
Sappiamo ormai che non si tratta solo di madri folli o senza cuore, ma possono esserci cause di vario tipo…
«Nel corso del tempo, per fortuna, si è sgretolato lo stereotipo che vedeva la prevalenza delle infanticide come donne che attraversavano grosse difficoltà economiche, sociali, che hanno per questo dovuto affrontare il parto da sole perché, magari, avevano tenuto nascosta la gravidanza. 
Recenti studi evidenziano invece come siano tenute maggiormente in considerazione sia la presenza di situazioni dinamiche complesse sia l’importanza delle componenti psicopatologiche. 
Da un punto di vista psicopatologico si rileva la presenza di tematiche depressive, senso di inadeguatezza, auto-svalutazione, perdita della (o non acquisita) capacità di svolgere il ruolo materno. Frequenti sono pure i  comportamenti anomali verso il bambino, spesso non desiderato e vissuti pessimistici e ansiosi sul futuro fisico o mentale del figlio; inoltre, sono abbastanza comuni tematiche negative nei confronti del partner (gelosia, relazioni disturbate, intenti vendicativi nei suoi confronti privandolo del figlio ecc.). 
Non mancano, però, casi nei quali nella madre si attiva un comportamento nel quale si evidenzia indifferenza, disaffettività, insensibilità, prepotenza, e altro.
Sono segnalate altre condizioni psicopatologiche caratteristiche quali i disturbi di personalità in cui vi è maggiore facilità al passaggio all’acting out, cioè all’azione, ove il figlio è percepito come un persecutore, o come soggetto che deve essere protetto a tutti i costi da un mondo “cattivo”.
Naturalmente, in ogni  singolo caso intervengono un numero molto ampio di concause, di natura psicologica, relazionale e sociale, che contribuiscono a delineare la complessità del fenomeno, e non è scientificamente, professionalmente e umanamente corretto considerare una singola chiave di lettura proposta per interpretare i singoli episodi.
Si tratta, comunque, di persone che soffrono e come tali vanno accompagnate in un processo di presa di consapevolezza, di responsabilizzazione e di cura». 
 
 
Se analizziamo l’excursus mitologico, storico-antropologico e giuridico, ci rendiamo conto che il fenomeno del figlicidio è sempre esistito, a cominciare dal mito greco antico di Medea, ( la più nota figlicida di tutti i tempi); storia e  antropologia contemporanea  ci mostrano la sua perenne  esistenza. Cosa può dirci in merito?
«Secondo Hilmann, i miti sono considerati come sogni che esprimono desideri e segreti inconsci. Per questo, la presenza in molti di essi di azioni figlicide ci porta a considerare queste un tabù di difficile elaborazione ed accettazione. Oltre a Medea, numerosi sono i miti che fanno riferimento all’azione del figlicidio o comunque considerano la tendenza e l’impulso figlicida. 
Urano aveva un profondo orrore dei figli e, appena Gea glieli partoriva, li imprigionava nelle viscere della terra. 
Il tema dell’assassinio del figlio ricorre anche nella religione: Dio ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco, Erode fa strage degli innocenti al di sotto dei due anni e costringe Gesù alla fuga in Egitto.
Secondo Resnick, il complesso di Medea, nato da questo mito greco, sta a delineare quel quadro sindromico nel quale il genitore di sesso femminile, posto in situazioni di stress emotivo e/o conflittuale con il partner, utilizza il proprio figlio per scaricare la propria aggressività e frustrazione, arrivando anche ad azione omicidiaria del piccolo, strumento di potere e di rivalsa sul coniuge».
 
Si possono auspicare precoci metodi di prevenzione, ponendo più attenzione al delicato ruolo della  madre nella società attuale? Da quale tipo di prevenzione di può partire?
«La prevenzione migliore che si può offrire alle madri, al giorno d’oggi, è uno strumento funzionale ma semplice nella sua applicazione: la relazione.
Le donne che arrivano a compiere azioni di questo genere, sono donne che hanno un vissuto di solitudine. Non si parla di solitudine nel senso di “assenza di compagnia”, ma solitudine in quanto isolamento emotivo e comunicativo. Una donna, inserita in una rete di relazioni, dalle più “semplici” (marito/compagno, famiglia, amici) alle più “tecniche” (medici di base, ginecologi, ostetrici, insegnanti, psicologi), è sostenuta nel suo ruolo, sa di poter fare riferimento a chi le sta intorno, senza timore di giudizio o patologizzazione, può chiedere senza indugi spazi in cui elaborare emozioni e reazioni. 
Il figlicidio viene compiuto certamente dal singolo, ma se l’uomo e la donna sono esseri sociali e in quanto tali, inseriti in un tessuto relazionale di riferimento, sorgono seri dubbi sulle reali responsabilità del singolo». 
 


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