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L´ILVA E I SORRISI FRAINTESI

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

31
AGO
2012

 

Prosegue il nostro racconto del più grande centro siderurgico d’Europa: questa volta sono le parole di un ex operaio, Giancarlo Crovace, a delineare, non in toni letterari, un luogo dove le polveri e il fumo stordiscono pure il tempo
 “Avevamo un progetto su di te”. Furono queste le parole che Giancarlo Crovace, 37 anni, diploma di geometra, attualmente barman al S. Martin di Martina Franca,  si sentì rispondere quando, nel dicembre del 2006, dopo aver atteso più di una settimana per parlare con l’addetto al personale, comunicò la sua decisione irrevocabile di licenziarsi dall’ILVA, dove, dopo i due anni con contratto di formazione, era stato assunto a tempo indeterminato. Quella risposta, velatamente ipocrita e falsamente buonista, rafforzò la sua decisione istintiva, da ragazzo intuitivo, incline all’ascolto e al sorriso cortese. Anche se all’ILVA i suoi sorrisi erano fraintesi e considerati uno sfottò. “C’ stè ride”, si sentiva ripetere sempre più spesso come risposta a quello che per Giancarlo era un saluto sinceramente affettuoso, rivolto ai colleghi con i quali era solito iniziare il proprio turno di lavoro. E così i sorrisi aveva dovuto metterli in tasca, ma non i pacchetti di sigarette. Era arrivato a fumarne quasi due durante il suo turno di macchinista, addetto alle spedizioni sui treni. «Molti i tempi morti – ci spiega – ma occhi aperti a 360 gradi, attenzione al massimo. Attenzione non solo per le mansioni proprie, ma soprattutto per quelle altrui.”  Vogliamo saperne di più e così lo invogliamo a fornirci maggiori dettagli. “Noi macchinisti avevamo il compito di scendere al molo con i locomotori carichi di rotoli d’acciaio. Per accrescere la produttività (e qui il suo tono si fa ironico, n.d.r.) si facevano scendere contemporaneamente più trenate, molte volte ai limiti delle pratiche operative. La norma infatti prevede una distanza di sicurezza fra le varie trenate in discesa e tempistica ben calcolata per l’ok del macchinista della prima trenata a quello della seconda. Le lascio immaginare cosa sarebbe potuto accadere se l’ok non fosse stato rispettato. Lei dovrà compiere uno sforzo d’immaginazione. Non certo io che, proprio in discesa sul molo, per salvarmi la vita, mi sono dovuto lanciare dal treno per evitare di finire sotto i rotoli d’acciaio. Questo incidente, dal quale per fortuna sono uscito illeso,  per me è stato come una prima scossa. Mi rendevo conto che questo mio lavoro, pur  essendo poco intenso, perché diluito nel corso delle otto ore, richiedeva un’attenzione che invece la routine delle operazioni da compiere rendeva molto molto labile. Del resto accade  un po’ in tutti i campi: quando si è all’inizio si è concentratissimi, poi man mano che si acquisisce esperienza i gesti diventano automatici e per forza di cose ci si distrae. La distrazione all’ILVA si paga a carissimo prezzo».
Insomma, non hai retto?
«No, non è esattamente questo. Cominciavo ad accusare problemi respiratori, sintomi di gastrite,  anche per via di un’alimentazione scorretta condizionata dai turni di lavoro. E poi c’è stato un grave infortunio di un mio carissimo amico che ha perso alcune dita del piede. Di fronte a tutto questo ho concluso che la sicurezza di uno stipendio fisso, motivazione-cardine della mia scelta di entrare all’ILVA, non avrebbe affatto reso sicura la mia vita. Ascoltavo i colleghi anziani  che  come un mantra ripetevano quotidianamente “quann’è che me ne agghia sce’ da qua”, invocando la pensione quasi fosse un’apparizione miracolosa. E poi mi è capitato di sapere che molti di loro, insieme alla pensione si erano ritrovate le metastasi tumorali ai polmoni».
E così ti sei licenziato. Sei stato coraggioso.
«Sapevo di avere un’alternativa. In precedenza avevo già fatto esperienza nel settore della ristorazione, che richiede maggior impegno e non ammette tempi morti. Ma è un settore che mi piace, che mi offre la possibilità di osservare la gente…».
E di sorridere…
«Non sempre, sa? La gente è nervosa, poco incline al dialogo, alla relazione. E’ sempre sul piede di guerra. Vorrei andar via. Ho viaggiato tantissimo, soprattutto in Europa. Qui siamo indietro persino rispetto ai paesi dell’Est, verso i quali nutriamo pregiudizi infondati, frutto d’ignoranza. E’ un paese vecchio, e non parlo solo di Martina Franca, ma dell’Italia».
Insomma, sei pessimista.
«Realista direi. Quella dell’Ilva è una questione tremenda, difficilissima da risolvere. Personalmente non credo che i danni ambientali e quelli alla salute possano essere risolti. E, d’altra parte, è impensabile che i tanti giovani che ancora lavorano nello stabilimento si licenzino. Senza un’alternativa concreta di impiego si resta lì, con tutti i rischi che ciò comporta».
Giancarlo ora è sposato e ha una bimba di sette mesi. E’ per lei che ancora riesce a sognare, a immaginare un futuro altrove: nel Kazakistan. Perché no? Forse lì i suoi teneri sorrisi avrebbero un senso diverso. 


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