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Luca Casamassima/Dietro si sta più tranquilli

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

14
SET
2012

 

Scrittore e attore, questo giovane artista tarantino ci racconta l’epopea a cui è costretto chi decide di campare d’arte da queste parti, e ci spiega come mai ha scelto di dedicarsi alla regia e alla sceneggiatura
 
William Blake è stato un poeta e pittore inglese (1757-1827). Una figura di spicco, una di quelle figure particolari che risvegliano le pagine della letteratura. La sua poetica si basava sull'idea di progresso, generato dalla tensione degli opposti stadi della mente e non dalla soluzione di supremazia di uno solo. Riteneva, Blake, che questi opposti convivessero anche nella figura del Creatore, che può essere nello stesso tempo il Dio dell'amore e il Dio della violenza.
Ho ricordato la poetica di Blake  mentre intervistavo il poliedrico artista di questa settimana. Nonostante sia nato solo nel 1989, Luca Casamassima, nato a Taranto ma ormai trasferitosi a Roma da anni, non ha peli sulla lingua, gioca molto con le parole e si diverte utilizzando una sottile ironia che sottolinea vizi e virtù, ma soprattutto vizi di questa società.
Scrittore, attore, sceneggiatore, presentatore radio e - quando ha tempo e voglia anche studente universitario - ci racconta, il suo modo di vedere la vita e l'arte, che come direbbe Blake si sviluppa nella costante lotta tra il nero e bianco. L'importante è che non diventi mai grigio.
 
Una vocazione artistica che emerge subito. Il 2007 è per te un anno importante: FanfaLuca.
«FanfaLuca è una raccolta poetica, è il risultato di una vittoria a un concorso letterario anche se  non essendoci investimenti nelle nuove penne la pubblicazione è stato un venirsi incontro tra casa editrice e me stesso. Un insieme di poesie scritte tra i quattordici e i sedici anni,  la maggior parte autobiografiche. Prima e ultima mia esperienza nel campo, perché se continui a fare poesia dopo un po' di tempo, come diceva De Andrè o sei un poeta o sei un deficiente, siccome io non mi sento un poeta ho deciso di non continuare nel campo della poesia ma è stato comunque un punto di partenza nel viaggio della scrittura in generale. E' stato tutto molto in piccolo, si ha l'idea che quando si scrive e si riesce a pubblicare un libro si abbiano delle grandi folle da incontrare, in realtà questo è stato vero solo in parte, durante le presentazioni, una fatta a Roma  e una fatta a Taranto presso il liceo statale Archita, scuola che io all'epoca frequentavo. E' stata sicuramente una bella esperienza considerando anche la mia età di allora, 17 anni, ma in realtà non l'ho mai vissuta con una gioia immensa perché sono abituato a guardarmi sempre intorno, e in contesti fuori dall'Italia a diciassette anni si è già delle grandi star. Certo il campo della poesia sappiamo tutti quanto oggi sia minato».
 
Prima ancora di capire che uomo fossi, hai impostato tutta la vita in base al tuo sogno, andare a Roma e fare l'attore. Come si fa a capire già in tenera età quel che si vuol fare da grandi e soprattutto esserne così convinti?
«A questo punto è necessaria una precisazione. In realtà oggi, considerando tutto il mio percorso ho capito che la mia idea non era quella di voler fare l'attore ma quella di voler comunicare a un vasto pubblico che è diverso, l'attore in qualche modo è condizionato dal regista, dalla parte. Il teatro è un mondo che mi ha sempre affascinato, certo tutti magari da piccoli vogliamo fare determinate cose e poi con la crescita prendiamo altre strade.  Per esempio, ultimamente è morto Armstrong, probamente lui da piccolo avrà detto che da grande avrebbe voluto fare l'astronauta, come dicono più o meno tutti i bambini, ma lui ci è riuscito. Diciamo che chi decide di andare avanti nel campo artistico ha salute e tempo da perdere, è un azzardo, non hai un percorso da seguire che prima o poi darà i suoi risultati. Cammariere ha pubblicato il suo primo album a quarant’anni anni. Da piccolo inoltre non sai le cose che dovresti fare per arrivare a fare l'attore».
 
Terminato il tuo percorso di studi classici, sempre accompagnato all'esperienza teatrale, stage e corsi di formazione, ti trasferisci a Roma per inseguire questo sogno. Raccontaci il passaggio tra ciò che avevi sempre voluto e l'impatto con la realtà romana.
«Sono arrivato a Roma nel settembre 2008 e subito ho iniziato a frequentare l'accademia Fondamenta. L'impatto in realtà è stato molto negativo, purtroppo c'è questo luogo comune di associare alla parola accademia il concetto di arte, ma in seguito alla mia esperienza non sono pienamente d'accordo. L'accademia presuppone un insieme di regole, una divisione dello spazio fisico, un'idea artificiale delle emozioni, insomma l'impatto con l'insegnamento non è stato facile infatti  dei due anni previsti sono riuscito a portare a termine solo il primo. Forse è meglio così, credo che alcune arti non si possano insegnare, si dovrebbe lasciare più libertà a tutto, anche all'arte stessa. Io non consiglierei all'artista in generale di seguire delle regole».
 
Roma ti fa sperimentare altro: la regia, la scrittura di monologhi andati brillantemente in scena. Qual è la differenza tra lo stare sul palco e dietro? Cosa ti piace maggiormente?
«Stare dietro il palcoscenico ha soddisfatto i miei bisogni di pigrizia. Lo sceneggiatore ha quel ruolo un po' riparato, se così si può dire. È stato tutto casuale perché dopo due anni di stop, ho incontrato una mia ex collega di accademia che mi ha chiesto di scriverle questo monologo su alcuni temi della vita a lei cari in questo periodo. Lo spettacolo si chiama CartaBianca ed è andato in scena al teatro Elettra di Roma, maggio 2012. Questa esperienza mi ha fatto apprezzare il ruolo meno esposto alle intemperie rispetto alla figura dell'attore o regista. Dietro si sta più tranquilli e poi con i costi che ci sono entri a teatro gratis. Se dovessi scegliere adesso cosa fare sicuramente è  la sceneggiatura ad attirarmi maggiormente rispetto al fatto di interpretare un ruolo. Andrò comunque in scena con lo spettacolo “Altra strada”, regia di Barbara Amodio, a fine settembre, e sto scrivendo un altro monologo».
 
Come si fa a non perdere l'entusiasmo?
«L'entusiasmo purtroppo si perde, dopo che hai sbattuto il muso su cento porte. Bisogna vedere quanto ne avevi inizialmente».
 
Dai tuoi scritti emerge un esilio volontario dalla città di Taranto. Perché?
«Taranto a livello culturale, nonostante l'aria di cambiamento, è marginale, in particolar modo il teatro che è l'arte più “maltrattata”. Ci sono stati altri artisti, De Cataldo, Argentina, Mietta che sono invece riusciti a coltivare le loro espressioni artistiche e poi a emergere. Insomma quello che voglio dire è che a Taranto ci sono ancora dei limiti spesso legati alla stessa cittadinanza che richiedono un percorso più impegnativo rispetto altre città. In realtà ho poca fiducia nella gioventù di oggi, in quella tarantina maggiormente».
 
Sarebbe bello poter pensare di raggiungere la felicità, o meglio la serenità. L'arte, nel farla e nel riceverla, può essere una strada?
«In realtà credo che l'arte nasca proprio dall'assenza di serenità; nella storia dell'arte in genere nessun uomo sereno ha scritto o realizzato capolavori. Consiglio il cibo per la serenità».
 
Tra Taranto e Roma: qual è la situazione del giovane artista e il giovane intellettuale oggi?
«Il giovane intellettuale oggi esiste sia a Taranto che a Roma, e forse in realtà più piccole si percepisce  anche più facilmente. Sicuramente però non possiamo parlare delle figure artistiche e intellettuali dei primi del Novecento, dove si viveva in un periodo di risposta alla società, le famose figure arrabbiate e che si opponevano a determinate costrizioni sociali. Oggi il giovane intellettuale resta servo della società, per il semplice fatto che non ci sono porte aperte per chi ha idee differenti. Per questo vivere di arte è ancora un'utopia».
 
Sei anche conduttore radiofonico...
«Sì, parliamo di una radio in streaming, che non posso definire un lavoro ma un mio personale divertissement. Presento un programma che si chiama Scarafaggi, su radio Kaos Italy in coppia con un mio caro amico e collega di scena, Antonio Vellucci, quindi per noi è anche un tenersi sempre in allenamento, la radio è improvvisazione, e tra l'altro soddisfo il mio grande altro amore per  la musica, in particolare il cantautorato italiano, che ormai sembra così lontano. A proposito, vorrei tanto essere contattato  da uno degli esponenti della musica alternativa contemporanea per sapere perché per alternativo oggi si deve per forza intendere incomprensibile. Riprendiamoci i De Gregori, i Guccini, i Daniele».
 
Le figure più importanti della tua vita?
«I punti di forza della mia vita sono sicuramente identificabili nella figura di mia madre e della mia nonna materna, per quanto riguarda la famiglia. Per il resto credo che l'amicizia sia davvero l'ancora di salvezza di chiunque. Chiunque dotato di un po' di senno, affida all' amicizia la salvezza della  propria vita.»   


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