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Marina Cassano: Vi racconto la mia Africa

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

16
MAR
2012

 

Questa settimana incontriamo una giovane ricercatrice martinese disposta a ripercorrere con noi la sua esperienza da volontaria in Madagascar
 
Marina, la tua esperienza in Madagascar si è inserita nell’ambito del Servizio Civile Internazionale, che rappresenta di certo una gran bella opportunità per chi, come te, ha voglia di conciliare viaggio, formazione e attività lavorativa (seppur da volontaria). Tu, in particolare, hai scelto il Madagascar come meta per il tuo anno di Servizio Civile all’estero: come mai? Perché proprio il Madagascar?
«Diciamo che la scelta del Madagascar non è stata proprio progettata “a tavolino”, mi è piombata un po’ addosso, nel senso che io ero semplicemente alla ricerca di un Paese francofono, in cui cioè si parlasse la lingua francese, che già conosco e che desideravo perfezionare. E poi, casualmente, ho visto che tra le sedi affiliate per il Sevizio Civile all’estero c’era una ONG in Madagascar dal profilo molto interessante, soprattutto per quelli che sono i miei interessi. Ricercavano volontari esperti in comunicazione a cui affidare progetti didattici con ragazzi e bambini non scolarizzati; insomma, sembrava proprio il posto giusto per me! E così, dopo una serie di colloqui e selezioni, è iniziata la mia avventura in Africa, che si è rivelata essere un’esperienza umana davvero incredibile, al di là dell’essere un’esperienza formativa e professionale molto valida e importante.»
 
Qual è stato il tuo ruolo all’interno della ONG?
«Insieme a Chiara, che è stata la mia compagna di esperienza durante questo anno in Madagascar, ho lavorato come educatrice con ragazzi della scuola secondaria, tra i 15 e i 20 anni (nel caso di alunni ripetenti). In particolare mi sono occupata del corso d’informatica e della redazione di un giornale locale. La ONG che mi ha accolto lavora da oltre venticinque anni nel campo della cooperazione internazionale e da soli tre anni è in Madagascar; il lavoro da fare, quindi, è tantissimo! Durante l’anno trascorso con loro, tra le altre cose, ho collaborato alla realizzazione del censimento dei bambini di Ambanja non scolarizzati e privi di atto di nascita, che sono veramente tanti, purtroppo.» 
 
Per quanto riguarda nello specifico l’attività didattica che hai svolto, con che tipo di ambiente ti sei confrontata?
«Francamente quando mi è stato affidato il corso di informatica temevo di non esserne all’altezza, poiché le mie competenze informatiche credo non siano eccezionali. Ma poi mi sono resa conto di quanto venisse apprezzata anche la nozione più elementare, da parte di ragazzi che non avevano altro modo né momento per sperimentare l’uso del computer se non durante le mie ore di corso: erano entusiasti anche solo di trascrivere i loro testi usando il pc, e questo trovo sia emblematico per descrivere un po’ l’intera cultura malgascia, nella quale basta poco, veramente pochissimo per produrre entusiasmo, gratitudine e sincero apprezzamento!»  
 
Prima hai affermato che, in qualche modo, è stata la lingua francese a spingerti verso il Madagascar; una volta lì, però, hai scoperto che il francese di fatto è usato ben poco poiché l’idioma locale è il malgascio, una lingua che, suppongo, tu non conoscessi. La questione della lingua ha rappresentato per te un ostacolo, un problema?
«Sicuramente sì, soprattutto all’inizio, quando non ero in grado di comprendere una sola parola in malgascio! Poi con il tempo, nel vissuto quotidiano e soprattutto grazie all’aiuto degli stessi malgasci, sono riuscita a entrare poco a poco dentro questa lingua a me del tutto sconosciuta, anche perché avevo assoluta necessità d’impararla, non tanto per far fronte alle esigenze di tutti i giorni (come fare la spesa, chiedere informazioni, ecc.), quanto, piuttosto, per svolgere la mia attività d’insegnante. I ragazzi malgasci, infatti, studiano a scuola il francese così come noi italiani studiamo l’inglese: tanta teoria, ma nessuna pratica nella quotidianità! Quindi, effettivamente, nessuno di loro parla il francese, al massimo lo comprendono, ma poi nessuno si sforza di parlarlo. Era perciò mio dovere imparare la loro lingua, per riuscire a stabilire una relazione umana con loro, prim’ancora che didattica, e credo sia stata proprio questa motivazione molto forte a spronarmi nell’apprendimento della lingua malgascia. Penso che esperienze di questo tipo siano in grado di dimostrare quanto in realtà sia limitante costruire rapporti attraverso lingue differenti; non a caso, quella della lingua è una questione centrale nel discorso che interessa l’interculturalità.»
 
Spesso, purtroppo, quando in Occidente si parla di Paesi in via di sviluppo ci si sente come “in dovere” di fornire degli strumenti utili a questi Paesi, quasi a volerli “educare”… Questo, è chiaro, dipende dai punti di vista. A fronte della tua esperienza in Africa, in che misura senti effettivamente di aver insegnato e quanto, invece, senti di aver appreso da questo “Paese in via di sviluppo”?
«Credo di aver appreso molto, molto, molto di più rispetto a quello che ho cercato di insegnare. Il mio ruolo ufficiale di “Insegnante” credo si sia limitato quasi solo esclusivamente al laboratorio d’informatica e alla redazione del giornale; per il resto del tempo penso, felicemente, di essere stata un’allieva attenta e curiosa rispetto a tutto quello che la natura e le persone locali hanno saputo insegnarmi, spesso probabilmente senza neanche rendersene conto!»
 
Che cosa, in particolare, ti ha insegnato questo Paese?
«…Tante, tantissime cose! Tra tutte, sicuramente, mi ha insegnato a “fare con quel che si ha”, ottimizzando le risorse a disposizione senza doverne necessariamente cercare delle altre, e questo credo mi abbia permesso di sviluppare flessibilità, ulteriore senso critico e anche creatività. Mi ha sensibilizzato ancora di più verso lo spreco di beni come l’acqua e il cibo, che in Africa rappresentano beni davvero preziosi e invece in Europa, come accade in genere nella cultura occidentale, spesso si consumano oltre misura… E poi, altra cosa importantissima, mi ha insegnato a procedere lentamente, con estrema pazienza, seguendo il flusso degli eventi senza cercare a tutti i costi di precederli. Uno dei detti malgasci più ricorrenti, infatti, è «Mora Mora», che significa «Piano Piano»: questo detto mi è entrato dentro e mi ha permesso di vedere lo scorrere del tempo e degli eventi con una nuova consapevolezza.»
 
L’esperienza che hai vissuto ha rispecchiato le tue aspettative iniziali?
«…Mah, in realtà non saprei neanche dirti quali fossero esattamente le mie aspettative iniziali… Sono partita senza avere un’idea precisa su quello che avrei vissuto e credo che questo sia stato un bene, in un certo senso, perché mi ha reso completamente aperta a tutto “il bello e il brutto” che poi ho incontrato. Quello che so di certo è che rifarei di nuovo tutto quello che ho fatto; ripartirei anche domani se potessi!»
 
Parlano di “Mal d’Africa” e le tue parole confermano che, probabilmente, non si tratta solo di un mito: la nostalgia dell’Africa esiste e duole nello spirito… L’avverti anche tu questa forma di nostalgia molto intensa?
«In realtà sì… Sarà perché da quando sono arrivata il sole sembra essere scomparso e piove ininterrottamente, fa un freddo glaciale e il cielo è sempre grigio…ma mi manca tanto l’Africa…»
 
Quali sono le cose del Madagascar che ti sono rimaste dentro e di cui senti maggiormente la mancanza?
«I colori, i profumi e i sorrisi: penso sia tutto racchiuso in queste tre cose. Dicono che i colori in Madagascar siano più brillanti e io posso confermare che davvero è così! Sarà merito della luce, suppongo, che di certo è più intensa e riflette intensamente tutto ciò che illumina, ma i colori sono qualcosa di…pazzesco! Così come i profumi, da quelli delle spezie a quelli delle piante, tutti comunque molto intensi, al pari dei colori! E poi…i sorrisi: quei sorrisi sinceri sul volto di tutti, che arrivano a scaldarti il cuore proprio nei momenti più difficili, quasi a volerti ricordare che una soluzione c’è, sempre.»  
 


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