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Uomini contro/Dal malamore al femminicidio

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

31
OTT
2014
Un punto di vista sul fenomeno della violenza di genere. Imperativo categorico: puntare sulla certezza della pena e uscire dall’analfabetismo sentimentale, educando, informando e dando il giusto esempio. A colloquio con lo psicoterapeuta Nicola Ghezzani
 
 
 
La violenza di genere, che  nella sua forma più estrema sfocia nel femminicidio, pone in primo piano la drammaticità di un fenomeno che appare  inquietante e in continua crescita. Quando parliamo di violenza ci riferiamo a quella  fisica, psicologica economica e sessuale, ecco perché sono problematiche culturali prima ancora di diventare criminali.
Questo genere di violenze, perpetrate dagli uomini ai danni delle donne in quanto tali, ossia in quanto appartenenti al genere femminile, attiene a profonde e radicate  motivazioni culturali caratterizzate da modelli fondati su dominio e prevaricazione tra i generi, tanto da chiedersi quale sorta di eclissi di senso e d’anima  riesca a permettere un annientamento tanto radicale dell’altro.
Le domande che oggi ci poniamo sono tante e diverse. Insieme al dott. Ghezzani abbiamo cercato di delineare questo angoscioso fenomeno moralmente  e culturalmente  destabilizzante, cercando di dare alcune risposte ai maggiori  interrogativi che attanagliano il nostro cuore ogni volta che ascoltiamo la terribile notizia di una donna morta per mano  di un uomo.
Il femminicidio è un fulmine a ciel sereno o c’è un tipo di violenza latente che precede la violenza omicida? Quale tipo di relazione  può sfociare in un delitto così terribile? Perché quando la relazione smette di essere “sana”  e luogo condiviso di crescita, prende il sopravvento un mondo delirante fatto di risentimento, odio, rabbia, onnipotenza, che agisce in  nome di un diritto di proprietà assoluto di vita o di morte, sul proprio partner ?
Perché un uomo sceglie di colpire, annientare e togliere la vita alla donna che poco tempo prima ha amato…e soprattutto è vero amore quello che lega questa tipologia di uomo alla sua donna? Come si può prevenire tanta  violenza nei confronti di una donna?
Fondamentale non far calare il silenzio su questo tema moralmente  e culturalmente destabilizzante e soprattutto non dimenticare che, come sosteneva uno slogan, per ogni donna uccisa, violentata, offesa... siamo tutti parte lesa!
Cosa accade nella mente di un uomo che colpisce fino a uccidere una donna?
«Per aggredire un altro essere umano, fino a giungere all'omicidio, occorrono rabbia, furia, odio. Gli uomini che uccidono le donne hanno improvvisi accessi di rabbia oppure un odio freddo e costante. In termini generali, l'omicidio – solitario o di gruppo – è un fenomeno diffusissimo, ma quello di un uomo nei confronti di una donna ha dei caratteri specifici. Al di sotto della rabbia e dell'odio l'uomo prova segretamente paura della donna. Ne ha paura perché essa gli appare d'un tratto come una figura antitetica rispetto al suo mondo, alla sua identità, alla dignità e alla sicurezza raggiunte. Egli si ritiene da lei “offeso”, persino “sfidato”, sminuito nel suo potere e nella sua dignità di maschio. In lui agisce un impulso vendicativo. L'uomo che uccide la sua compagna la odia perché se ne sente offeso e vuole punirla. Si vendica con la sua soppressione. L'uomo talvolta è cosciente di ciò, altre volte invece ne è inconscio, e allora agisce in una sorta di raptus ipnotico».
 
Dietro molti di questi terribili delitti  ritroviamo spesso la stessa scena, l’assassino è quasi sempre il compagno, il marito, il fidanzato, il convivente, l’amante. Qual è la natura di questa debolezza maschile? Il problema è anche culturale? 
 
«Innanzitutto non vorrei portare acqua all'ideologia che si è diffusa negli ultimi anni. Quando diciamo “omicidio” sappiamo che esso può avere mille cause diverse. Quando invece diciamo “femminicidio” l'ideologia corrente ci spinge a immaginare un marito o un convivente crudeli che sopprimono una donna inerme e innocente. Ma la fenomenologia del femminicidio è vasta quanto quella dell'omicidio. Non è vero che l'omicidio della donna avviene quasi sempre o comunque più spesso fra le mura domestiche. Certo, quando avviene in casa fa molto più scalpore. Ma l'omicidio “legale” della donna nei regimi teocratici e quello per violenza singola o di gruppo in atti di criminalità sessuale, che avviene da sempre e ovunque nel mondo, lo effettuano maschi sconosciuti che lo effettuano su donne sconosciute, solo perché sono donne, da predare, violare, punire, brutalizzare, uccidere. Si tratta di un vecchio e orribile codice di sopraffazione. 
Detto questo, in famiglia accade perché il parente maschio si sente titolare di un diritto privato, di proprietà morale, della donna. Accade di solito in virtù di complesse dinamiche psicologiche. L'angoscia di essere “tradito” – sia fisicamente che moralmente – può declinarsi nel maschio dominante come gelosia morbosa, angoscia di abbandono, rabbia per essere stato messo in grave difficoltà; l'atto libero o orgoglioso della donna viene interpretato come una sfida che disseppellisce l'insicurezza dell'uomo e lo costringe ad agire in modo punitivo, per reprimere l'angoscia di essere un debole. Ormai noto è il caso delle ragazze musulmane segregate in casa e uccise nel caso si innamorino di un occidentale; non troppo diverso è il caso della donna di qualunque etnia, di solito giovane, che alza la testa contro l'uomo, dichiara di volerlo lasciare, talvolta lo tradisce con un altro uomo, e per questo viene uccisa».   
 
Esiste un motivo specifico per questo dilagare della violenza contro le donne? Può l’uomo di oggi fare fatica ad accettare il mutamento di identità sociale ed emancipazione della donna nella società? Può percepire questo come  “minaccia” in un certo senso alla sua stessa virilità e quindi scatenare l’aggressività? 
 
«Vorrei fare una distinzione chiara e netta fra potere e virilità. L'uomo che arriva a picchiare o uccidere la propria donna lo fa solo in apparenza per difendere la propria virilità (e in qualche psicopatologia egli ritiene di farlo davvero per questo: minacciato da insicurezza e da impotenza). Ma in realtà l'uomo difende sempre il suo potere, surrettiziamente identificato con la virilità. In termini sani, maturi, la virilità si configura come un rapporto con se stesso e con la partner sorretto da un principio etico. La virilità non va confusa né con il potere né con l'erotismo consumatorio: l'uomo virile è profondamente morale, non agisce mai in modo da danneggiare la donna né soverchiandola col suo potere, né seducendola col sesso, profittando di un bisogno romantico della donna o di una sua propensione alla trasgressione. Quindi la violenza alla donna avviene sempre come esercizio di un potere isolato o di branco, non come espressione di virilità. 
La violenza si esercita sempre come una forma di punizione: un potere (di un marito che si sente messo in ridicolo o in gravi difficoltà economiche, di un partner che ha paura di restare solo, di un branco di maschi che si sentono offesi dalla libertà di una ragazza che va in giro a viso scoperto o con il corpo fasciato da un bel vestito) si sente messo in minoranza, si sente costretto all'angolo, e reagisce con un automatismo punitivo. Il potere insidiato ricava  sempre un “piacere” perverso nel trovare una classe “colpevole” da assoggettare. Non c'è dubbio che la violenza viene scatenata sempre da una qualche forma di emancipazione femminile. L'emancipazione femminile è un fenomeno antropologico e sociale sempre positivo perché riequilibra il potere generale. In questi casi, l'uomo virile è in grado di reggere l'offesa; purtroppo, l'uomo insicuro si sente minacciato nel suo potere e quindi reagisce con la violenza».  
 
Le donne possono cogliere dei segnali prima dell’instaurarsi di un evento senza ritorno? È quindi possibile una qualche forma di prevenzione? Quali  consigli darebbe a una donna vittima di violenza psicologica o fisica, chiusa nel proprio silenzio? 
 
«In casa i segni sono sempre palesi. Nella coppia c'è un crescendo di litigi, l'ira viene frenata a stento o esplode in raptus improvvisi in cui vengono presi di mira oggetti cari alla partner. Purtroppo, molto spesso la donna, quando è una fidanzata, una convivente o una moglie, coglie sempre con molta esattezza i segnali del crescendo di follia; ma un'antica cultura della sopportazione e una moderna cultura della provocazione e della sfida la spinge a sottovalutarli e a restare col suo compagno, esponendosi così al momento fatale. Come ho scritto nel mio libro Volersi male, nel quale racconto e analizzo alcuni casi di questo tipo, la donna resta incredula del potenziale aggressivo del maschio; talvolta resta passiva per puro masochismo, altre volte per un ostinato spirito di rivalsa si oppone con gli atteggiamenti e col il proprio corpo – muto o aggressivo – e l'uomo a questo punto non ci vede più, trascende e colpisce.    
Il consiglio che cerco di dare  sempre alle mie pazienti è di chiudere il rapporto ai primi cenni di minaccia e di violenza e di rifarsi una vita. Nei casi estremi è necessario pensare a una denuncia e a costruirsi una solida rete amicale e parentale di difesa».  
 
Prevenire la violenza di genere, proteggere le vittime e punire severamente i colpevoli. Sono questi i tre obiettivi fondamentali del decreto legge contro il femminicidio e la violenza sulle donne. Lei cosa ne pensa?
 
«Non posso che pensarne bene. Le leggi servono a orientare i comportamenti collettivi. Devono essere semplici, precise e molto ferme. La legge che mi ha citato è un ottimo esempio di buona legge».  
Oggi viviamo realmente una sorta di analfabetismo sentimentale? Lei si è occupato di interessanti ricerche sull’amore e i disturbi dell’affettività. Sull’amore sano nelle sue potenzialità di unione duale e di attivatore della crescita personale. Che cosa contraddistingue un rapporto sano e come si sviluppa?
 
«Come ho scritto nel mio libro “Quando l'amore è una schiavitù”, l'amore patologico è contrassegnato da una sorta di oblio di se stessi. La donna dipendente affettiva non ha una percezione distinta del proprio Sé, del proprio valore e della propria dignità di persona. Si sente in simbiosi  col partner indifferente o maltrattante perché questo è l'unico modello di amore che ella conosca. La simbiosi masochista già vissuta con la propria madre (molto più di rado col padre) la spinge a cercare uomini freddi e anaffettivi come è stata la madre con lei, a temerli come divinità minacciose e a farsene asservire. Per contro, i caratteri che contraddistinguono l'amore li ho descritti sia nei libri citati che in altri più specifici: i caratteri propri dell'amore sono la reciprocità, il rispetto, la confidenza, l'ammirazione erotica e affettiva, l'impulso alla generosità, il credere profondamente che la felicità del partner rinforzi la coppia e arricchisca e migliori la vita di entrambi. La chiave del vero amore è il sentimento della reciprocità, senza il quale ogni coppia può degenerare in una qualche forma asimmetrica di potere. Tuttavia, la reciprocità non va chiesta in modo coercitivo, bensì nell'esercizio paziente e costante della profonda intimità e della confidenza».     
 
Gli interventi legislativi sono fondamentali per la definizione dei reati, per la tutela delle vittime e per gli interventi di sostegno alle stesse. Accanto a questo è necessario però avviare una specifica attività formativa che consenta ai giovani una vera e propria educazione ai sentimenti, in grado di far superare  gli stereotipi di genere. Quali strumenti si possono mettere in funzione e con quali finalità?
 
«Anche qui voglio contestare in modo chiaro e netto una mistificazione e una retorica che si vanno diffondendo. Non è l'educazione scolastica che può migliorare la condizione della donna nel nostro mondo. Questo può valere per le scuole coraniche, dove la donna è segregata e minorizzata, non per le nostre scuole. Indicare le scuole come luoghi di “prevenzione del crimine” significa turbare e offendere i nostri ragazzi. Con queste prassi inquisitorie si scaricano di fatto le responsabilità adulte sui ragazzi in formazione. Il problema è sempre istituzionale: le donne devono essere rispettate per costume e per legge nei luoghi di lavoro, nei luoghi pubblici, quando esprimono un'idea e quando passeggiano, nell'esercizio delle professioni e nelle attività ludiche, nelle palestre, nelle piscine, nei locali, devono essere rispettate come artiste, scienziate, politiche, come accoppiate e come single, come eterosessuali e omosessuali; devono essere rispettate anche come prostitute! Esse devono avere una presenza crescente nel mondo sociale; dunque il costume generale, condizionato dalle leggi, che educa i giovani, non la scuola, dove dovremmo insegnare la bellezza della Venere di Botticelli, l'amore di Dante per Beatrice, quello di Petrarca per Laura, l'eccellenza pittorica di Artemisia Gentileschi, la potenza poetica di Saffo ed Emily Dickinson, l'intelligenza scientifica di Marie Curie, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack. Nella scuola dobbiamo produrre e promuovere alta cultura, sempre e soltanto alta cultura, non ammonire con noiosi e presuntuosi sermoni che nascondono implicite e sgradevoli insinuazioni. I ragazzi non saranno mai violenti se il mondo adulto insegnerà loro, con l'esempio concreto, che la donna è pregiata e amata in tutti i luoghi pubblici e privati».    
 


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