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Domenico Starnone/FOLGORATO DALLA PAROLA

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

28
SET
2012

 

Professore, sceneggiatore e appassionato lettore, lo scrittore racconta della sua passione per le parole e il raccontare, di un’Italia falsamente democratica, in cui si legge pochissimo e di una scuola che pone al centro il libro come oggetto persecutorio
 
Nell’ambito della quinta edizione di "Scrivere a Ceglie Messapica. L'avventura della parola e della conoscenza" organizzato da Graphein a cura del prof. Cosimo Laneve, presso la masseria Casina Vitale, abbiamo incontrato Domenico Starnone - scrittore, sceneggiatore, professore -, per affrontare con lui il tema della magia della lettura, di quel atto che permette di trasformare i segni in parole e poi di ricrearle in immagini e in potentissime emozioni, sospendendo l’incredulità del lettore e vincendo la pigrizia del “voltare pagina”. Domani (29 settembre) si celebra, tra l’altro, l’ottava edizione della Festa dei Lettori, un’iniziativa promossa dai Presìdi del libro, pertanto con il professor Starnone abbiamo voluto incentrare la nostra conversazione proprio sul tema della lettura.
Quali sono stati i suoi “libri fatali?”
«E’ difficile rispondere a questa domanda. In realtà all’origine della mia passione per la lettura non ci metto i libri ma ci metto le parole. Ricordo molto vagamente. Avrò avuto sette/otto anni e ricordo il titolo di un libro: “L’odalisca”. Mi appassionò la parola; era il suono di quella parola, di cui non conoscevo neppure il significato,  che mi piaceva. Se poi devo arrivare a un libro, il primo che mi ha travolto è stato quello che mi ha regalato mio padre: “L’ultimo dei moicani”. Mi colpì moltissimo,  alcune cose in particolare: i nitriti dei cavalli morenti nella notte».
Quali libri porterebbe con sé in un’isola deserta?
«Questa sì che è una domanda a cui è davvero complicato rispondere. Sicuramente porterei con me Don Chisciotte, I fratelli Karamazov, Madame Bovary, Anna Karenina, La Divina Commedia, l’Orlando Furioso, un po’ di letteratura contemporanea: ecco porterei Don DeLillo: “Rumore bianco”, per imparare come si fa».
In Italia si pubblica tantissimo ma si legge pochissimo. Lei a proposito dell’Italia ha parlato di “paese falsamente democratico”. Come favorire il felice contagio della lettura? Servono Festival, Incontri con l’autore ed eventi simili?
«In Italia tradizionalmente si legge molto poco, l’alfabetizzazione di massa è arrivata tardi e quindi abbiamo dei problemi in questa direzione. A ciò bisogna aggiungere che nel momento in cui il nostro consumo di libri andava salendo, negli anni ’60, si afferma sempre di più un mezzo come la televisione che, attenzione, non è il demonio. La televisione è un mezzo meraviglioso. Però allora, negli anni ’60, essa si oppone immediatamente al libro nel momento in cui, raccontando storie, soddisfa il bisogno di storie delle persone. E poiché la televisione è più facilmente consumabile rispetto al racconto che va avanti pagina dopo pagina con la scrittura, in un paese già fragile dal punto di vista dell’alfabetizzazione, la televisione ha insidiato la passione per il libro. I festival sono fenomeni che attirano lettori che sanno che esiste quell’autore, che esiste quel libro e che vi partecipano per vedere l’autore, per sentire l’autore. Dubito che questo in seguito possa ampliare la passione per la lettura: il festival è un evento, accende la passione per l’evento, però il problema è che – come si dice – passato il santo, passa anche la festa. Resta che si legge poco».
Avanza l’ebook, il libro digitale farà bene alla lettura?
«Lo sforzo di girare la pagina resta, è lo sforzo di sfiorare per andare avanti. Non lo so se l’ebook farà bene alla lettura. Il libro digitale ha il vantaggio che può contenere tantissimi libri facilmente trasportabili dentro la tavoletta. Il problema di fondo – leggere – resta. Resta il problema  di trasformare quei segnetti e attivarli, far venir fuori persone, cose, scene. E’ la voglia di leggere, la passione di leggere il problema, non il libro digitale. Esso è forse più comodo del libro di carta, è possibile portare con sé più libri di quanti se ne portavano in passato. Il problema è la passione di leggere. E quella quando nasce? Come nasce?».
A scuola?
«Non è detto. I banchi di scuola hanno al centro il libro, ma hanno al centro il libro come un oggetto persecutorio: “Bisogna leggere, studiare da pagina a pagina, essere interrogati, altrimenti prendi un brutto voto!” Il tutto si fonde insieme e la scuola allontana dai libri. Probabilmente la scuola dovrebbe fare di più non tanto in termini di “leggi questo libro che è bello” o di analisi testuale, delle trame. Dovrebbe suscitare la passione per la parola scritta, l’accendersi del cervello dinanzi ad una parola o ad una frase scritta alla lavagna o su un rigo. Occorrerebbe partire dalla passione per la parola per arrivare alla passione per la frase e per il racconto scritto».
Cinema e letteratura: è una coppia che funziona?
«Sono due forme di scrittura del tutto diverse. C’è la scrittura per il cinema che è una scrittura di servizio, cioè serve a gettare le basi di un racconto che  sarà fondato sulle immagini e la letteratura  che è assolutamente autonoma, cioè non è una scrittura legata ad una collaborazione, è una scrittura che ha una sua specifica responsabilità: lo scrittore è responsabile di qualsiasi cosa: la virgola, il punto, la parola. Il cinema è una grande opera di collaborazione diretta da una persona che fa il regista. Lì la scrittura è un momento del film. Spesso si tirano fuori film da romanzi. Coi miei libri lo hanno fatto.  Spesso tirar fuori un film da un romanzo deve avere un presupposto. Nessun film darà sullo schermo quello che io ho immaginato mentre scrivevo. L’autore del libro è condannato ad andare al cinema e dire “mi hanno tradito”. Se è uno che si arrabbia, secondo me fa bene a non vendere i diritti del suo libro. Se invece vende i diritti deve dare per scontato che il film che scorrerà sullo schermo è altra cosa da quello che lui immagina di aver scritto».
Qual è lo stato di salute della narrativa italiana? Se la sentirebbe di indicarci qualche titolo su cui puntare i riflettori?
«Lo stato di salute della narrativa italiana è buono: è un periodo in cui gli scrittori sono molto attivi, si pratica ogni forma di scrittura, da quella sperimentale a quella tradizionale, al romanzo di impegno sociale. Il problema è che i libri si vendono poco. Il mercato librario è sempre più povero. Quindi abbiamo da un lato soprattutto scrittori giovani, esordienti che vanno emergendo e che sono quasi sempre interessanti, dall’altro un pubblico molto ristretto di lettori. In questo momento sto leggendo un libro molto interessante: “Il peso della grazia” ed è di uno scrittore giovane, Cristian Raimo, appena uscito; un romanzo corposo, ambizioso».
Con  il romanzo “Via Gemito”, del 2000,  ha vinto numerosi premi (Premio Strega, Selezione Campiello, Premio Napoli, Premio Alvaro).Giova agli scrittori vincere un premio e per i lettori può essere una bussola per orientarsi nel mare magnum delle pubblicazioni?
«Un premio letterario importante fa solo vendere un po’ di più, giova in questo senso, non per il talento: lo scrittore se ha talento andrebbe avanti anche senza premio. Per i lettori non so se servano i premi letterari. I lettori dovrebbero imparare a scegliere fuori dai premi, ad andare per la loro strada».


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