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Cosimo Calabrese/Le mie foto? Le odio tutte

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

28
SET
2012

 

Il senso della fotografia per questo giovane tarantino che ha deciso di restare. Segni particolari: è impegnato in un progetto lungo 180 giorni, ama fotografare i cani e vuole arrivare a 10.000 ore di pratica
 
Closer, un film del 2004 (diretto da Miche Nichols, con Jude Law, Natalie Portman, Julia Roberts e Clive Owen), è una storia di passione e amore tanto intrecciata quanto travolgente. Il motivo per cui spero che voi abbiate visto questo film non è legato alla regia o agli Oscar ricevuti,  piuttosto a un  pretesto (come tanti altri nel mondo del cinema e dell’arte in genere) vicino a noi, per farci riflettere sul potere della macchina fotografica. Jude Law, giornalista di necrologi, fidanzato con Alice, conosce e si innamora pazzamente della fotografa Anna, Julia Roberts, e questo loro amore prende forma in una delle scene iniziali del film, nella casa-studio di Anna, mentre la fotografa sta facendo alcuni scatti al futuro amante. Il gioco di sguardi, di luce, di sentimenti di sensazioni si basa fortemente sul rapporto che si crea tra i due attori e l’obbiettivo di questa elegantissima macchina fotografica.  La fotografia, disegnare con la luce, sin dai tempi della sua scoperta è sempre stata utilizzata in tantissimi campi della vita dell’uomo, ricerca, scienza, intrattenimento, cinema, giornalismo, fino ad affermarsi come arte singola, fatta di sue personali peculiarità. In effetti è proprio così: spesso non ci facciamo più caso, perché siamo praticamente bombardati da qualsiasi tipo di immagine, ma all’interno della fotografia si creano una serie de dimensioni, di mondi, di sentimenti. E oggi, insieme a un esperto del settore, Cosimo Calabrese, facciamo un viaggio in questo così  affascinante modo di comunicare. Classe 1985, tarantino oggi per scelta, perché nato a Taranto e poi trasferitosi a Castiglione delle Stiverie, provincia di Mantova al confine con Brescia, ha scelto poi di ritornare nella sua città nativa; studente di Lettere moderne, Cosimo, da semplice fruitore di questa forma di espressione ne diventa un operatore, trasformando una sua grande passione nel suo lavoro. Giovane, con voglia di sperimentare e crescere, ci tiene a dividere quello che è il suo lavoro dalle sue sperimentazioni che sono fondamentali per la sua crescita, e crede vivamente nella forza comunicativa della fotografia in quanto immagine ricca di significati. È di questo affascinante mondo che in prima persona, Cosimo Calabrese, oggi ci parla.
 
Studi Lettere moderne e lavori, sei un fotografo. Qual è il filo conduttore delle due cose?
«La scelta di studi è stata dettata dalla mia personale sfera di interessi, senza pensare  agli eventuali sbocchi lavorativi, ma nonostante questo e nonostante il fatto che le due cose possano sembrare lontane, per me non sono scollegate. C’è tanta fotografia nella letteratura e probabilmente proprio grazie alla letteratura che sono arrivato fin qui. I romanzi più importanti dell’ultimo secolo sono tutti collegati alla fotografia. Non vedo le due cose come due campi separati, riesco a vedere tutto quello che faccio ben collegato. »
 
Ti appassioni alla fotografia prima come spettatore e poi come operatore. Come avviene questo passaggio?
«Ho sempre guardato fotografie sin da quando ero bambino e ho sempre amato sfogliare i libri che avevo a casa, passavo delle ore a osservarle, ci riflettevo su, mi piaceva osservare determinati giochi di luce, ma in generale ho sempre amato guardare fotografie scattate da fotografi contemporanei o in genere dei grandi maestri della storia. Dopo questa prima fase di osservazione, un giorno mi resi conto che avevo voglia di capire come funzionasse questo strumento, questa macchina fotografica. E così, da un giorno all’altro mi ritrovai a non esserne più un solo fruitore . Appena scoperta questa mia passione, i passaggi sono stati tutti  piuttosto veloce.  All’incirca quindi quattro anni fa ho frequentato un corso di fotografia avanzato presso la FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, e ho appreso subito la tecnica. Per fare pratica ho trascorso un paio di anni nei villaggi turistici e quella è stata una buonissima palestra per apprendere la tecnica, poiché scattavo praticamente dalle otto della mattina fino a tarda serata».
 
Ne abbiamo in parte già parlato, ma c’è stato un momento in particolare, o una foto che ti ha fatto avvicinare a questo mondo come fruitore?
«In realtà non c’è stato un momento preciso. Come accennavo prima, da sempre ho amato sfogliare libri e guardare fotografie, in particolar modo quelle dei libri di storia, fotografie che testimoniavano momenti storici, poi se erano fatte bene era ancora più bello e interessante».
 
Credi ci voglia un talento?
«Fondamentalmente no, perché in realtà non credo nel talento come qualcosa di innato, credo invece nel valore e nella forza della formazione. Certo, essere abituati a vedere un certo tipo di cose,  vivere in un ambiente vicino alle arti visive, effettuare studi precisi, influisce sulla formazione stessa della persona e la pone in vantaggio rispetto a chi ne è completamente estraneo e si approccia per la prima volta. Però, è bene capire che si tratta solo di un vantaggio perché in realtà è tutto da costruire. Qualche giorno fa leggevo la teoria di Malcolm Ladwell, citata dal fotografo di strada Eric Kim, che afferma che per diventare maestri in qualcosa ci vogliono 10.000 ore di pratica. Ma, non è finita qui, oltre alla pratica ci vogliono tante ore di osservazione, di lettura, di documentazione. Insomma bisogna darsi da fare».
 
La fotografia è arte?
«La fotografia è arte e credo che sia palese a tutti. A parte i fotografi, anche la maggior parte degli artisti contemporanei utilizzano la fotografia per espressione. La fotografia è entrata nei musei e se ne  fanno continue mostre. E’ ormai un’arte visiva a tutti gli effetti e ha sicuramente le sue peculiarità. Io stesso amo le fotografie molto “fotografiche”, che non è  un gioco di parole, ma sono quelle fotografie che rispettano il codice artistico di questo tipo di arte, le sue caratteristiche. Quando una fotografia rispetta il suo codice è arte. Quando cerca di imitare altri mondi artistici, perde il suo linguaggio, la sua sintassi e la sua grammatica. Il fatto che sia semplice da mettere in pratica, perché rispetto ad altre tecniche lo è, non deve ingannare; dopo il semplice scatto ci sono dei procedimenti anche molto lunghi di post produzione che necessitano manualità e conoscenze pratiche».
 
Come vivi questo periodo in cui la fotografia è ormai una costante della vita di tutti i giorni e tanti si improvvisano fotografi?
«Io faccio il fotografo come lavoro ma contemporaneamente faccio le mie personali sperimentazioni, i miei progetti in cui non ho regole. Amo scoprire, non darmi limiti anche perché facendolo da poco ho bisogno di sperimentare, di imparare. Il fatto che la foto sia ormai una costante credo che da un punto di vista sociale sia una cosa positiva, testimonia una crescita, una conoscenza della fotografia. Mi dà più fastidio il fatto che nelle scuole si continui a imparare il solo linguaggio della scrittura e  non c’è un’alfabetizzazione visiva, o se c’è è fatta male, perché le ore di educazione artistica sono ancora poche, eppure viviamo in un mondo in cui comunichiamo ormai per immagini. Se non impariamo a conoscere le immagini ci manca un linguaggio, ci sarà un motivo se vengono scelte determinate foto piuttosto che altre. Viviamo inoltre nel mondo dello spettacolo e la fotografia contribuisce molto a idealizzare determinati personaggi, basti pensare alle grandi icone rock e subito ci verrà in mente la fotografia. Per esempio quando penso a Johnny Cash subito mi viene in mente la famosa fotografia che lo immortala con la chitarra e la sigaretta prima di salire sul palco. E’ bello poter capire perché è stata scelta quella foto, cosa voleva comunicare il fotografo, il reale significato. Se si passasse in campi quali la politica pensiamo allora quanto sia importante il valore comunicativo di una fotografia, ed è per questo che bisogna avere gli strumenti giusti per riuscire a comprenderla. Se la fotografia possiede una sua volontà, un suo perché, un valore ben venga, sempre. E’ una questione culturale anche questa, se la gente impara a conoscere tutti i canali di comunicazione è difficile poi essere presi in giro. La mia speranza ovviamente è che la gente capisca la differenza tra le cose fatte bene da altro. Credo che il pubblico non sia stupido e poi in fondo, anche nelle fotografia come in tutte le cose, se non hai costanza, se non hai passione, la scrematura avviene naturalmente.»
 
Prima di scattare una fotografia, provi un sentimento costante o in realtà ogni foto ha il suo perché?
«Ogni foto è differente anche perché prima di realizzare lo scatto giusto se ne fanno tantissimi spesso inutili. A volte ti può capitare di stabilire un contatto con il soggetto della foto, quindi nel momento in cui stai per scattarla capisci che è quella giusta, ma poi ci sono altri fattori che interagiscono nel momento dello scatto, l’ambiente, la luce, un semplice momento. Sicuramente c’è una sensazione particolare prima dello scatto e tutti i fotografi dovrebbero amare il suo rumore, tanti invece lo odiano.»
 
Tra i tuoi scatti, c’è una foto che ami particolarmente e una che invece proprio non sopporti?
«Fondamentalmente ho un piccolo problema: dopo poco che ho scattato una foto, già non mi piace più e sono proiettato verso altro. Ci sono delle foto che sono contento di aver scattato, per esempio, ne ho scattata una alla manifestazione del 2 agosto scorso e il giorno dopo era sulla copertina dell’Unità, però non è una foto che mi piace particolarmente. Sicuramente tutte le foto mi ricordano qualcosa, diciamo che finisco per odiarle tutte, perché credo di dover crescere ancora molto, scattare ancora tanto per arrivare a 10.000 ore. Tra tutte queste, però una foto che ha per me un importante valore è una scattata a un cane, nel centro di Taranto. Un cane a cui ero molto affezionato, che mi ricordava il centro, luogo che ho sempre amato fotografare. Si era creata una vera relazione durante quella foto, lui mi guardava. Amo fotografare i cani, senza ovviamente nulla togliere a tutte le persone che ho fotografato e che amo, allo stesso modo fotografare.  Elliot Erwitt, uno dei fotografi che apprezzo maggiormente, ritiene che i cani si comportino praticamente come gli uomini ma sono molto più disponibili a farsi fotografare, e io concordo pienamente.»
 
Approfondisci la fotografia di ritratto e quella di reportage. Cosa ti da fare questo tipo di fotografia e cosa pensi di dare?
«La fotografia di ritratto è per me anche terapeutica, è un modo per poter comunicare con le persone, per poterle conoscere, per scoprire nuove vite, scoprire determinate cose che si hanno in comune piuttosto che qualcos’altro e inoltre si crea un rapporto particolare. Quando fotografi una persona è come se si rompesse il muro che spesso le divide e mi piace quel momento, mi piace il rapporto che si crea. Il reportage è interessante allo stesso modo, ma cerco di farmi coinvolgere molto meno. Mi piace perché da la possibilità di conoscere realtà che non avresti modo altrimenti di conoscere. Per me è cercare di capire. Io voglio raccontare storie che ovviamente spero possano poi essere interessanti per chi le guarda».
 
Un giorno, un ritratto, una storia. Di cosa si tratta?
«Si tratta di un progetto che è nato 108 giorni fa, e l’idea è quella di raccontare ogni giorno, tramite il ritratto fotografico, la storia di una persona. Ogni giorno incontro una persona, scatto delle foto e do la mia personale interpretazione di quella foto, del rapporto che si è venuto a creare tra e me questa persona, e poi do la possibilità alla persona fotografata di lasciare invece la sua personale interpretazione scrivendo un breve o un lungo testo. Il primo tempo che mi ero dato era 100 giorni, il prossimo buon traguardo sarebbe 180».
 
Taranto.
«Taranto è per me il posto dove sono nato, il posto dove vivo da una decina di anni e dove sto cercando di crescere dal punto di vista lavorativo. È una città che in realtà faccio fatica a capire, ma comunque  mi piace questo posto, mi piace la sua gente. È  una città che sta cambiando, è un momento importante della sua storia, è forse l’ultimo momento di reale cambiamento che può avere. Nonostante la sua stranezza a me piace viverci, mi piace osservare la gente, i luoghi. Sto facendo un lavoro tra Paolo VI e i Tamburi in questo momento così particolare proprio perché voglio entrare nel profondo di questa città che è sicuramente distrutta e per chi decide di restare è una vera sfida. Sicuramente dovremmo scendere di più nelle piazze e parlarci. Non so come si potrà uscire da tutto quello che sta succedendo però l’importante è stia accadendo. Indipendentemente da tutto, per ora,  è qui voglio rimanere».


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