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RAFFAELE NIGRO/DEI PERDUTI NOMI

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

5
OTT
2012

 

L’ultimo cantastorie contemporaneo, si racconta e ci racconta di un mondo  in cui s’è persa l’onomastica del paesaggio e degli uomini che, come marziani, lo attraversano senza saper  dare un nome alle cose. E intanto l’idea del socialismo è tramontata.  A gennaio il nuovo romanzo
 
“Ultimo cantastorie contemporaneo”, così lo ha definito Valentino Romano nella prefazione al saggio “Ascoltate, signori e signore - ballate banditesche del Settecento meridionale”, (Capone Editore) il più recente lavoro di Raffaele Nigro, acuto osservatore,  ultimamente forse un po’  nostalgico,   ma sempre lettore avido dei luoghi e di un mondo che ci appartiene  meno,  perché – come afferma lo scrittore lucano – “non sappiamo più dare un nome alle cose che osserviamo e perciò attraversiamo la nostra esistenza come marziani, estranei al mondo che invece dovrebbe esserci familiare, perché ci stiamo dentro.”  Ma Nigro, per quanto creda che siamo irrimediabilmente condannati alla superficialità, privati dell’onomastica in un paesaggio nel quale la natura arretra mentre il cemento avanza, non si rassegna e continua con tenacia e battere la strada delle narrazioni, promuovendo una lettura non “a spizzichi e bocconi”. A gennaio il suo nuovo romanzo, il cui titolo provvisorio è “Il curatore del museo delle cere”, nel quale il tema dominante è la morte del socialismo e la morte delle idee, che scompaiono perché  soggette alla scomparsa degli uomini che le incarnano.
L’umanità si è  irrimediabilmente persa e dispersa?
«L’uomo esiste sempre. Si tratta di farlo venire fuori, di andare a cercarlo dove sta nascosto. In questo processo è responsabile l’edilizia, perché si è sviluppata verticalmente e ha causato la fine dell’agorà, della piazza.  Ma devo aggiungere che vedo anche l’esplosione di un altro fenomeno banale come le sagre; vedo che la gente è affamata di feste di piazza, di luoghi dove sia possibile divertirsi. Ed ho visto anche quei percorsi alternativi della riflessione. C’è la voglia di stare insieme, insomma».
Cos’è accaduto, quindi? 
«Ci siamo fatti vincere da una falsa idea: che tutto valesse per tutti. Io credo che percorriamo l’intera  vita alla ricerca o dell’altro o di un senso. C’è chi trova l’altro o anche se stesso e c’è chi gira a vuoto tutta la vita.  Oppure ci sono dei momenti in cui c’è una sorta di acme, in cui si sperimenta il sublime dell’esistenza, questo incontro però può anche sparire. Siamo come navi sull’oceano. Può accadere improvvisamente  che due navi si fiancheggino e ci si saluti per poi perdersi, ma può anche succedere che le navi continuino il loro percorso in parallelo».
Le librerie chiudono e gli scrittori di certo non ridono. Dove va la narrativa italiana? Cosa si sta perdendo e cosa guadagnando nella tendenza, che va avanti da un bel po’ di anni, al giovanilismo diffuso e  al lancio degli esordienti? 
«Questa strada perseguita dagli editor è legata al fatto che ogni tre mesi c’è bisogno di nuovi titoli, di nuovi libri. E’ giusto che, in una società sempre meno attenta ai giovani, gli si lasci spazio. L’aspetto negativo risiede però  nel fatto che a ogni stagione si cercano dei nuovi generi narrativi,  si spremono i giovani per un libro e poi li si butta al mare.  Accade che un giovane si getta tutto in una esperienza narrativa, si racconta e poi non ha più niente da dire, perciò l’editor va a caccia di nuove esperienze contenutistiche, le sfrutta al massimo della potenza perché si vuol fare il colpaccio. Ogni anno allo Strega, al Campiello si cerca il libro che possa vendere chissà quante copie. In questo modo non si bada più  alla costruzione di personalità letterarie che non solo hanno da raccontare  la propria esperienza di vita ma che hanno anche da perseguire delle idee e dei progetti narrativi».
Mala tempora currunt, quindi.
«Eh, direi proprio di sì. Nonostante l’odierna  grande alfabetizzazione, c’è uno spaventoso  analfabetismo di ritorno confermato dai dati sconfortanti sulla lettura:  la gente non legge, il tempo da dedicare alla lettura è sempre più risicato, le varie forme d’arte s’ammazzano tra di loro, il cinema uccide la letteratura e viceversa, la televisione uccide sia il cinema che la letteratura, anche se poi rimette in circolo i film. E’ spaventosa quanto sia breve la vita di un film: dura una settimana, poi, se sei fortunato, qualche tempo dopo ritrovi in televisione il film che ti eri perso al cinema».
Ma, occorre dire che intorno ai libri c’è un’effervescenza diffusa di iniziative di promozione della lettura. Cosa non funziona?
«A tal proposito dirò qualcosa che potrà apparire a prima vista reazionario. Da giovane pensavo di fare la rivoluzione e di dare tutto a tutti e quindi anche la lettura a tutti. Ma nel tempo mi sono accorto che la cultura più è alta e più è per pochi e che i cipressi più in alto vanno e più solitari diventano. Io, è vero,  mi sforzo, vado di qua e di là a parlare,  a promuovere il libro e la lettura ma sono consapevole che potrò fare  breccia solo su poche persone. Non che io voglia abbandonare gli altri a un destino amaro e nero, all’orrido nel quale ognuno è fabbro della sua vita. Noi offriamo la mano e raccontiamo per instillare il piacere della lettura, ma poi dobbiamo sapere che non tutti lo accoglieranno».
Quindi?
«Occorrerebbero scuole di lettura». 
Mi sembra che, invece, proliferino le scuole di scrittura e che pubblicare sia diventata l’aspirazione di tutti.
«Non sono d’accordo sul pubblicare tutto quello che si scrive. Magari sarebbe più utile creare dei luoghi di raccolta di ciò che si scrive, occorre tuttavia usare anche un crivello con dei fori più piccoli e offrire delle letture valide e che abbiano una vera ragion d’essere».
Insomma, ci sembra che lei sia dell’avviso che occorra costruire il lettore consapevole. E allora ci darebbe qualche consiglio in proposito? Chi è il buon lettore?
«Il libro deve essere letto tutto, non ci si può accontentare dello zapping nella lettura, perché lo zapping funziona per la televisione, eppure anche in televisione quando si trova il programma che  attrae, lo si porta a termine. Sono del parere opposto a quello di Daniel Pennac: non è possibile aprire a caso un libro, leggere una pagina e ritenere di essersi impossessati di quel libro. In questo modo non raggiungiamo l’anima delle cose, ma restiamo sulla superficie».
Come accendere il desiderio per la lettura?
«Intanto tenendo libri in casa, perché in casa di molti non si trovano altro che libri delle scuole elementari e medie, c’è il falso pretesto che costano troppo. Ma intanto vedo pizzerie e ristoranti stracolmi, le griffes addosso a tutti, i cellulari che si sprecano».
Ma questo è un discorso banale!
«No: oltre ai tre cellulari che compriamo a nostro figlio, compriamogli anche qualche libro e facciamogli vedere che anche noi leggiamo, facciamoci vedere che non guardiamo solo la televisione».
Lei è un adoratore della narratività. Ha anche denunciato che si è persa l’onomastica, non si sa dare più un nome agli alberi, agli uccelli, alle piante. Pensa che si tratti di una perdita irreversibile?
«Sì, penso proprio di sì. Perché intanto le specie di uccelli si stanno perdendo, intanto la natura arretra e il cemento avanza, intanto la desertificazione incalza e ci sono ragazzi che non so quante  volte siano usciti fuori dai condomini. La stessa scrittura è diventata sclerotizzata, si usano sempre meno parole, il nostro vocabolario va facendosi sempre più ristretto. Qualche giornalista dice che con 200 parole possiamo costruire un romanzo. Ma tra cronista e narratore c’è una differenza, il primo deve ridurre a poche battute il suo racconto e usare un linguaggio che sia sempre lo stesso e che entri negli occhi, nel cuore e nella mente del pubblico variegato dei suoi lettori, il narratore invece deve allargare l’area del linguaggio. La sua rivoluzione sta nel far vivere le parole, se non lo fa il suo racconto è utile a metà. A ciò aggiungerei che è bello guardarsi dentro, ma occorre anche guardare fuori. La voglia di raccontarsi  e la ricerca di una spalla non bastano. Quello che domina è un profondo senso di solitudine che ci porta a guardare dentro e a tirar fuori parole che poi nessuno legge e così si resta nella solitudine delle pagine o  dell’e book, del computer,  inascoltati e non letti, col problema non risolto».
In cosa risiede l’efficacia letteraria di un romanzo?
«Penso che l’idea di fondo in un romanzo sia importante ma altrettanto importante è il modo in cui quell’idea di fondo viene espressa. Tra Dante e Moravia passano dei secoli e possono avere espresso le stesse idee, però il modo in cui lo raccontano è molto molto diverso. La forma è importante tanto quanto il contenuto, l’una e l’altro si tengono a braccetto».
E chiudiamo questa chiacchierata con un po’ di gossip letterario. Al Suo collega scrittore barese, Gianrico Carofiglio, non è proprio andata giù la stroncatura di Vincenzo Ostuni, è seguita la querela con la richiesta di un cospicuo risarcimento (50 mila euro). Intanto a sostegno di Ostuni, indignati contro Carofiglio, sono scesi tanti scrittori  e giornalisti (circa 200). Lei è tra questi?
«Penso che tutti siamo stati toccati da una critica feroce, non si può bloccare la libertà di opinione. Penso che la risposta di Carofiglio sia stata eccessiva. Al suo posto mi sarei limitato a usare lo stesso mezzo, cioè a scrivere. Non possiamo mettere il bavaglio alle opinioni di altri critici. No, io non ho firmato perché, confesso la mia ignavia, sono troppo amico di Carofiglio  per firmare contro di lui, anche se ritengo che abbia ecceduto.  Anch’io sono stato tartassato in un articolo da Angelo Guglielmi,  ma questo non ha significato che io lo querelassi:  mi sono limitato, nel momento in cui lui mi ha chiamato a Roma come suo assistente, a dirgli che avevo tutt’altre idee, che non condividevo il suo realitismo tout court e sono rimasto a Bari a fare quello che facevo. Ognuno di noi reagisce come gli pare. E poi … il tempo è galantuomo».
Nella querelle è sceso anche Emanuele Trevi, secondo allo Strega,  con “Qualcosa di scritto”, che ha tentato di stemperare i toni  spezzando una lancia a favore di Carofiglio e confidando in un passo indietro. Sorge un  sospetto: potrebbe trattarsi di una montatura per far circolare i libri? Insomma se le librerie chiudono gli scrittori s’arrabbiano e fanno le bizze.
«Non credo, non sono un dietrologo, non credo che Carofiglio  avesse bisogno di una ribattuta di questo tipo, perché la RCS ha messo in campo tutto il possibile per la vendita dei libri: dai totem, alle montagne di libri, alla pubblicità martellante sui quotidiani, quindi non credo che ci fosse un bisogno così stringente di pubblicità ricorrendo a questo artificio. Probabilmente Carofiglio, che è un magistrato, avrà intuito che c’erano dei margini per intervenire su una strada di diritto, di legalità ed è intervenuto».
 


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