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Oltre gli stereotipi/Salento iconoclasta

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

9
GEN
2015
Bisanzio non si arrende al marketing del folklore. Gli “eroi morenti” del regista Carlo Michele Schirinzi vincono al Salerno Doc Festival
 
Cos’è il linguaggio? E’ leva che libera l’uomo dall’isolamento, mettendolo in relazione con la realtà circostante, o boomerang che si ritorce contro di lui, denunciando la sua effettiva capacità di ascoltare l’altro? Moltissimi artisti di tutte le epoche hanno affrontato la questione, ciascuno offrendo una chiave di lettura diversa, spesso una sorta di sintesi tra la propria sensibilità, e l’influenza/condizionamento del contesto circostante. Merita perciò particolare attenzione chi è capace di “inquadrare” il problema con uno sguardo personale e inconfondibile, anche a costo di essere provocatorio e dissacrante. Insomma, iconoclasta. Questa è la strada che ha scelto di percorrere Carlo Michele Schirinzi, regista e artista salentino di Acquarica del Capo che, approdato recentemente al lungometraggio, ha vinto il Salerno Doc Festival proprio con il suo primo film “I resti di Bisanzio”. 
Protagonisti dell’ultimo lavoro di Carlo Michele Schirinzi sono il piromane C (Stefano De Santis) e gli amici S (Salvatore Bello), che suona nella banda, ed R (Fulvio Rifuggio), indolente ex benzinaio. I personaggi de “I resti di Bisanzio” non rappresentano identità compiute e definite al loro interno, e infatti vengono volutamente presentati senza nome; il regista li concepisce piuttosto come figure. Le esistenze dei tre scorrono parallele a quelle di altrettanti clandestini giunti fortunosamente sulle spiagge dell’Adriatico, e “risucchiati” dal basso Salento. Intanto, un terrorista culturale prepara dei messaggi che vuole affidare a bottiglie da gettare in mare, nella speranza che qualcuno raccolga la sua “voce”.
“I resti di Bisanzio” nasce da quello che Carlo Michele Schirinzi ha definito uno sguardo pornografico, quasi a voler ribadire in modo forte e inequivocabile l’intimità del rapporto che lo lega alla sua terra, il Capo di Leuca. Al centro dell’opera, l’immagine dell’eroe morente, che, in un certo senso, prova a resistere al “trucco”, alla “pulizia” messa in scena a uso e consumo di un certo tipo di promozione glocal. «Si è creato uno stereotipo del Salento che ha portato danni irreparabili. Ci si aspetta un certo tipo di immagine e di suono, la pizzica, invece la nostra scena musicale è ricchissima. Si improvvisa il turismo producendo una cementificazione assurda sulle coste, alberghi che nascono in luoghi dove non dovrebbero nascere. Questo territorio è stato completamente stravolto». 
Personaggi e luoghi sono uniti a doppio filo, spiega il regista. «Il film nasce da un senso di impotenza. Il protagonista non ha un’identità. Così come per me quel luogo non ha identità oppure ha un’identità che sta morendo. Non è un lavoro sulla morte, perché quelli sono luoghi morenti, non morti, gli eremi bizantini invasi dalle muffe, l’architettura fascista in disfacimento, il centro d’accoglienza abbandonato. Non è importante la storia ma la geografia». Un altro tema centrale de “I resti di Bisanzio” è il concetto di linguaggio come finzione: la comunicazione resta sempre, inevitabilmente, frammentata e discontinua, sembra voler dire Carlo Michele Schirinzi.
L’iconoclastia rappresenta quindi una forma di ribellione all’omologazione culturale sempre in agguato. Non a caso, dichiara l’artista, questa fa parte del suo percorso professionale, e rappresenta quindi un riferimento estremamente importante per “decodificare” la sua opera. «Spesso ho lavorato sui negativi graffiandoli. L’iconoclastia, il rifiuto delle immagini che venivano venerate, ha provocato la fuga di alcuni monaci che approdarono su quelle coste dell'Adriatico. Mostro i loro dipinti, immagini di donna, non di madonna, in cui mi piace immaginare anche una dimensione onanistica». 
Perciò, se i tempi che viviamo sono come acque scure e profonde, naufragare, più che un dato di fatto, è un auspicio. Un’urgenza salvifica, per certi versi. «Mi oppongo al cinema dei colonizzatori. Autori come Ernesto De Martino e Vittorio De Seta si annullavano nella realtà, avevano un enorme rispetto per la realtà. Michelangelo Frammartino, che stimo immensamente, ha detto una volta che di fronte al reale l’autore deve avere umiltà di cancellarsi. Bisogna scuotere il pubblico che è ormai apatico. Artaud affermava che bisogna andare a teatro con lo stesso spirito con cui si va dal dentista. Il mio film è un naufragio, vuole che il pubblico si lasci trasportare da queste onde. E oggi i naufraghi spesso arrivano sulle nostre coste morti e noi li consideriamo il nuovo nemico».
 


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